Fraternità e guerra nel nuovo secolo

Con il crollo delle torri a New York si è aperta, 20 anni fa, una nuova fase nel cammino dell’umanità  
Guerra e fraternità dopo 11 settembre (AP Photo/Justin Lane)

L’attacco sul territorio statunitense che si è consumato l’11 settembre 2001 segna l’inizio di un cambiamento d’epoca. Quella mattina due aerei di linea furono dirottati e diretti contro il World trade center di New York, un complesso di 7 edifici comprendente i due grattacieli più alti al mondo, le cosiddette “torri gemelle”.

(AP Photo/Shawn Baldwin)

Un altro aereo riuscì a colpire il palazzo del Pentagono e un quarto velivolo si schiantò a terra. Si contarono 2997 vittime, oltre i 19 terroristi morti nell’azione suicida. In gran parte provenienti dall’Arabia Saudita, come l’ingegner Osama Bin Laden, individuato immediatamente dagli investigatori quale mente dell’attentato realizzato dal movimento fondamentalista al-Qaeda. Gli atti dell’inchiesta sono disponibili sul sito dell’Fbi eppure resta difficile comprendere il fallimento del sistema di sicurezza della superpotenza statunitense.

Le immagini di quel giorno segnano la fine del mito dell’invulnerabilità degli Usa. Il trauma del 2001 viene associato al declino del “secolo americano” davanti all’avanzare di nuovi protagonisti internazionali. Soprattutto la Cina, che nel dicembre di quell’anno entrò a far parte dell’Organizzazione mondiale del commercio, ma anche il fenomeno di un totalitarismo integralista di radice islamista descritto dalla veemente narrazione di Oriana Fallaci (1929-2006). La scrittrice fiorentina rese accessibili a un vasto pubblico le tesi di noti studiosi sull’inevitabile scontro di civiltà che attenderebbe un Occidente chiamato a riscoprire l’orgoglio delle sue radici. Una rappresentazione semplificata della realtà che ha promosso un ampio consenso a favore della guerra di ritorsione degli Usa contro l’Afghanistan, Paese allora in mano al regime teocratico dei talebani, accusato di nascondere e proteggere Osama Bin Laden.

“Un nuovo ordine del mondo”
Come riporta Ugo Tramballi, editorialista de Il Sole 24 ore, nella presidenza di George W. Bush, iniziata nel gennaio 2001, «gli interessi dell’apparato militare-industriale e delle grandi imprese petrolifere si sovrapponevano all’idealismo neo-imperialista di Paul Wolfowitz», uno degli ideologi di quella amministrazione, secondo il quale «come l’Impero romano, anche quello americano è destinato a esaurirsi. Dobbiamo sfruttare i 20/40 anni che ci rimangono per mettere ordine nel mondo».

(AP Photo/Doug Mills)

Una strategia che prevedeva la sospensione dei diritti civili per i sospettati di terrorismo, internati nel campo di detenzione di Guantanamo, e che incontrò il sostegno di diverse scuole di pensiero. Come quella teocon, basata sulla visione liberista dell’economia e sulla sacralizzazione politica degli Usa quale nazione benedetta da Dio. Tale visione ha cercato invano di arruolare tra le sue fila anche la Chiesa cattolica, come ha evidenziato nei suoi lavori il filosofo Massimo Borghesi. Città Nuova in questi 20 anni ha espresso una resistenza ragionata all’ideologia della guerra che comunque gli Usa, assieme alla Gran Bretagna guidata da Tony Blair, decisero di sferrare il 7 ottobre 2001 con l’operazione Enduring Freedom, che comportò, nei soli primi 6 mesi, l’impiego di oltre 22 mila missili e bombe di ogni tipo.

Il costo della guerra
Il costo provvisorio della guerra in questi 20 anni, secondo la statunitense Brown University, è di circa 241 mila vittime oltre a centinaia di migliaia di morti a causa della fame, delle malattie e della mancanza di servizi essenziali. Le forze armate dei Paesi Nato, intervenuti dal 2003, hanno registrato la morte di 1.144 militari (54 italiani). Gli Usa hanno perso 2.448 militari e 3.846 contractors delle compagnie militari private. Un sacrificio di vite umane richiesto anche a 444 operatori umanitari e 72 giornalisti.

Bin Laden è stato ucciso in Pakistan nel 2011 (e poi sepolto in mare…) come riportato dalle fonti ufficiali Usa, raggiungendo già a quel tempo l’obiettivo di garantire la loro sicurezza nazionale. È la tesi ripetuta nel 2021 al momento dell’evacuazione frettolosa dall’aeroporto di Kabul che suscita emozione e sdegno per la riconsegna del Paese a un regime violento e oppressivo.

(AP Photo/Marco Di Lauro)

Occorre rileggere con attenzione le Lettere contro la guerra lasciateci da Tiziano Terzani, giornalista e scrittore fiorentino (1938-2004), profondo conoscitore del continente asiatico, che decise nel 2001 di recarsi nell’Afghanistan sotto le bombe. Da quella postazione scrisse alla Fallaci riandando ai tempi di Balducci, La Pira, don Milani e molti altri, quando Firenze riuscì ad esprimere le ragioni di un’umanità che, posta davanti al «crinale apocalittico della storia», ripudiava la retorica e menzogna della guerra. Un antidoto necessario per restare con gli occhi aperti davanti a una propaganda pronta a dipingere come male assoluto gli stessi guerriglieri islamisti armati e finanziati per anni dagli Usa per combattere i sovietici presenti in Afghanistan dal 1979 al 1989. Un «gioco sfuggito di mano», come scrisse Alberto Negri su Il Sole 24 ore del 14 settembre 2001.

«L’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità», diceva Terzani il 27 ottobre 2001 da Peshwar, città pakistana di frontiera con l’Afghanistan: «Qualcuno può spiegarmi che differenza c’è tra l’innocenza di un bambino morto nel World trade center e quello di uno morto sotto le nostre bombe a Kabul?».

(AP Photo/Emilio Morenatti)

Una risposta a questa domanda arriva, senza ipocrisia, da quei teorici che apertamente ritengono improponibile l’applicazione delle regole astratte della guerra giusta davanti ai conflitti moderni dove «la popolazione è non solo vittima ma anche attore e oggetto della strategia», come afferma il generale Carlo Jean, per anni docente di strategia alla Luiss. L’uso dell’atomica sul Giappone nel 1945 è descritto come «evento terribile nella storia umana» da Winston Churchill nelle sue memorie, ma necessario per evitare il sacrificio ulteriore «di un milione di vite americane e mezzo milione di vite britanniche».

Il ritorno della logica della guerra ha segnato questi primi 20 anni del nuovo secolo con l’invasione disastrosa dell’Iraq nel 2003, nonostante l’opposizione di milioni di persone in piazza, e il rovinoso conflitto in Libia del 2011, accettato da un’opinione pubblica assuefatta in gran parte all’inevitabilità della soluzione armata e la guerra senza fine in Siria.

La fraternità di fronte all’abisso
Oggi, secondo gli esperti dell’Istituto affari internazionali, è maturo il tempo per l’Italia di riconoscere esplicitamente la natura bellica del nostro intervento militare all’estero, rimuovendo l’intralcio retorico delle operazioni di pace. Non è difficile, perciò, comprendere l’assenza della politica nostrana nel saluto a Gino Strada, morto improvvisamente il 13 agosto, non senza aver denunciato, fino all’ultimo, l’unanime adesione dei partiti a una guerra inutile e costosissima (vedi articolo p. 20). Strada non si limitava alla cura delle vittime della guerra, ma voleva risalire alle cause di tale orrore. Accusava le industrie delle armi, destinatarie di gran parte del denaro (oltre duemila miliardi dollari) richiesto per l’operazione Afghanistan.

Con le nuove tecnologie «si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile». Lo afferma papa Francesco nella Fratelli tutti, enciclica che parte dalla Dichiarazione sulla fratellanza, la pace mondiale e la convivenza comune, sottoscritta nel 2019 assieme al grande iman Ahmad Al Tayyeb. Un percorso inverso a quello nichilista dello scontro di civiltà evocato davanti alla tragedia dell’11 settembre: l’impegno comune per sanare le ingiustizie strutturali che conducono alle guerre. Il cambiamento d’epoca esige di capire come proseguire in questa direzione.

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La guerra al tempo della teopolitica
Intervista a Massimo Borghesi, professore ordinario di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze sociali, umane e della formazione dell’Università di Perugia. Autore di “Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo»”, Jaca Book 2021.

Come si può leggere ciò che è accaduto l’11 settembre 2001 a New York?
È il primo attacco nel suolo nordamericano dai tempi della guerra inglese contro i coloni del Nuovo Mondo. Lo shock è enorme ed è comprensibile. Il 2001 costituisce uno spartiacque della storia mondiale, segna l’affermarsi della teopolitica, dello scontro politico-religioso come guerra mondiale. Il cristianesimo, protestante e cattolico, diviene parte di una lotta planetaria. Esce di scena l’ecumenismo, irenico e ideologico, dell’era della globalizzazione post-comunista, a favore di una concezione militante, guerriera, della fede polarizzata dalla dialettica amico-nemico. Questa svolta riguarda da vicino anche la Chiesa. Gli intellettuali teocon, con Michael Novak, George Weigel, Richard Neuhaus, tentano sistematicamente di porre il cattolicesimo sotto l’ombrello Usa, di forgiare un americanismo cattolico incentrato sul cattocapitalismo e sull’occidentalismo. Ci riescono, in parte. Trovano però un ostacolo imprevisto nella strenua resistenza di Giovanni Paolo II contro la guerra in Iraq voluta ostinatamente dal presidente Bush. Dopo la battuta d’arresto, tentano di rilanciare il loro progetto egemonico sotto il pontificato di Benedetto XVI in nome della lotta al relativismo etico e della difesa dei valori dell’Occidente. In Italia gli “atei devoti”, da Giuliano Ferrara a Marcello Pera, diventano i leader di un mondo cattolico che non è più in grado, terminata la stagione democristiana, di esprimere una sua visione originale.

Cosa suscitano le immagini della ritirata delle truppe occidentali da Kabul?
Certamente grande delusione per il modo improvvisato e affrettato con cui è stata organizzata la ritirata. Non degno di una grande potenza come gli Usa. I teocon ne hanno approfittato per criticare Biden e per rilanciare la loro prospettiva, quella delle guerre occidentali finalizzate a creare regimi democratici nel mondo. Una prospettiva che suscita grandi speranze e poi, inevitabilmente, grandi delusioni. La gabbia che ora attende l’Afghanistan è uno spettacolo inguardabile. Così come è inguardabile la chiusura di taluni Paesi europei di fronte ai profughi. Un destino cupo attende migliaia di persone, di donne in particolare. La ruota della storia gira altrove, le montagne dell’Afghanistan non interessano più a nessuno. Solo L’Isis, qualora fosse tollerato dai Talebani, potrebbe riportare l’attenzione su Kabul.

Intervista integrale prossimmente su www.cittanuova.it

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Cosa è cambiato in questi 20 anni
Intervista a Laura Silvia Battaglia, giornalista specializzata in aree di crisi e conflitti, con un particolare focus su Yemen e Iraq. Autrice e conduttrice per Radio 3. Collabora con molti media, tra cui il Washington Post. Autrice di Lettere da Guantánamo. Dall’inferno al limbo, dove sono i detenuti del 9/11, Castelvecchi editore 2021.

Cosa si avverte in questi ultimi 20 anni nei Paesi a prevalenza islamica?
Viaggiando e vivendo in particolare in Iraq e in Yemen, è palpabile la disaffezione verso gli Usa. In parte a ragione, da chi ha assaggiato forme di occupazione (vedi l’Iraq) o ingerenza (pensiamo agli attacchi con drone in Yemen) sul proprio territorio nazionale, con devastanti conseguenze sui civili (ad esempio l’uso del fosforo bianco sugli abitanti di Falluja in Iraq). Una disaffezione fomentata, poi a partire dagli anni ’70, da una propaganda martellante contro “la secolarizzazione del nemico occidentale” da parte di rappresentanti politici legati strettamente a figure religiose oltranziste dell’Islam sciita (in Iran soprattutto) e sunnita (in Arabia Saudita, in particolar modo). La delusione nei confronti degli Stati Uniti e dei loro alleati si basa anche su alcune vicende mediorientali del ’900 (dalla rivolta di Mossadeh in Iran all’intervento a fianco di Israele nelle guerre dell’area) che hanno spostato l’asse di alleanza e di interesse nei Paesi più ricchi di energia, gas e petroli, lontano da Europa e America.

Secondo lo storico Michael Ignatieff, le democrazie devono contenere l’uso della forza per distinguersi dai terroristi…
Non credo che questo limite sia stato mantenuto a Guantánamo, un luogo off limits non sottoposto de facto alla giurisdizione americana, dove punire chi vi era stato trasportato prima di poterne stabilire tramite giusto processo la sua effettiva colpevolezza. Questo è successo sistematicamente in tutti i Black sites americani, in Afghanistan, Iraq, Giordania, Egitto, anche con l’aiuto compiacente delle intelligence locali.

Ha ragione lo scrittore Tahar Ben Jelloun che chiede al mondo musulmano una condanna pubblica del regime talebano?
La sua denuncia non può essere applicata ai musulmani che conoscono profondamente la loro fede: non c’è alcun divieto per una donna ad accedere all’istruzione, ad esempio. Ma ha ragione quando dice che in questi casi non ci sia un fronte comune deciso e pubblico. Perché? Perché un governo talebano fa comodo a molti attori regionali, dal Qatar alla Turchia, che, come da anni fa l’Iran, esternalizzano su altri Paesi la loro influenza, proprio per disinnescare il ruolo americano ed europeo nella regione. Un Emirato islamico in più, per l’establishment dei Paesi del Golfo, sunniti o sciiti poco importa, è sempre meglio di una piena democrazia.

Intervista integrale prossimamente su su www.cittanuova.it.

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