1972, Festival a Loppiano

Tra l'erba folta e tappeti di fiori fra le vigne, per tre giorni migliaia di giovani si ritrovano attorno a quindici complessi canori, per celebrare una festa di canti e di pace. Da Città Nuova rivista
Loppiano

[…] La prima cosa che dà all’occhio, arrivando su per queste straducole che salgono da Incisa, sono le frotte di persone, soprattutto giovani, a centinaia, anzi a migliaia.
 
Avanzando ancora, tra l’erba folta e tappeti di fiori che (come nell’ultimo film di Zeffirelli) separano le vigne e si intrufolano fin tra gli ulivi, si scorge un accampamento brulicante. Ma se andate all’“accoglienza” vedete una mappa delle varie sistemazioni, con alloggi di fortuna e anche alberghi (per chi non può stare in tenda), per un raggio di quindici e più chilometri, fino alla periferia di Firenze. Si calcola che in questi giorni ci siano state quattro o forse cinquemila persone. Un festival così originale però, e così diverso rispetto a tutti gli altri, che quasi non so se è il caso di chiamarlo con questo nome. Comunque, come diceva Marco, una festa: questo è fuori di dubbio.
 
Per esempio non abbiamo visto solo complessi e cantanti. Gruppi di varie culture (cinese, filippina, africana, brasiliana, tutta gente che abita qui) si sono alternati così bene con danze e pezzi folkloristici, che se non ti concentravi un istante rischiavi di non raccapezzarti più in che paese ti trovavi. Anche, forse, a causa dello scenario insolito per chi vive in città.
 
Per le gare musicali ci si trovava tutti insieme, in un vasto prato concavo, con una buona acustica, della capacità di dieci-dodicimila persone. Per il suo fondo erboso e gli alberi circostanti, questo luogo è stato chiamato Anfiteatro verde. A oriente si domina la valle dell’Arno, con il Pratomagno increstato di bianco. E, col tramonto, le tonalità più calde si rincorrono tra i rami per infiltrarsi tra la folla plaudente e multicolore, e accendere riflessi d’oro sul palco e sull’ultima neve.
 
Allo spettacolo che ti riposa gli occhi se ne aggiunge un altro che ti rinfranca il cuore. Trovi sempre qualcuno che ti mette a tuo agio, anche se non lo avevi mai visto prima. Ti saluta, ti serve, ti ascolta. E vedi che non si tratta solo di una forma esterna di cortesia; né solo di un sano vivere civile… Soprattutto trovi sempre un momento in cui ti accorgi che tu stesso puoi fare altrettanto per gli altri, e che se non lo fai perdi tempo.
 
Forse per questo la gente che viene qui si trasforma un po'. Un regista televisivo che sta girando un servizio per il primo canale tedesco, e col quale ho pranzato oggi, mi ha raccontato un piccolo episodio che gli è successo dopo una settimana di permanenza in questa Mariapoli. «Ormai mi ero abituato (insieme alla mia troupe) a vedere occhi sorridenti e gente così fresca; tanto che quando sono capitati alcuni giovani “normali”, sul momento m’è quasi preso un colpo!».
 
Una trentina di autisti, tanto per dirne un’altra, oggi stavano nei loro pulman ad ascoltare la radio, quando han pensato che anche loro potevano fare qualcosa. Detto fatto: si sono messi a servire a tavola, durante il lungo periodo del pranzo. Nessuno glielo aveva chiesto; tantomeno il contratto…
 
Queste cose credo che capitano perché senz’altro l’ambiente ti aiuta a ritrovare te stesso, a sentirti più uomo. Forse non aveva tutti i torti quel quotidiano del nord che ha descritto così questo luogo: “Ti sorridono anche se gli pesti i piedi”.
 
Inutile dire che molti avrebbero desiderato che il festival non finisse più: come questa ragazza di Genova, Andreina, che mi dice: «Quello che mi ha toccato è la disponibilità. A Genova, quando si cammina per la strada, ognuno fissa lo sguardo nel vuoto e cerca di sfuggire la possibilità di incontrare gli occhi delle persone che gli passano accanto. Qui invece c’è la ricerca degli occhi degli altri: è un invito, ed è bellissimo sentirsi accolti e rispondere». E un altro, Gennaro: «Tutto il mio mondo basato sul menefreghismo e sulla noncuranza è crollato di colpo dinanzi a questo esempio di fratellanza». E Paola: «Sono venuta per puro caso. Ma già appena arrivata m'è subito piaciuto, ed ero felicissima (e lo sono tuttora) di essere venuta e di aver conosciuto un nuovo modo di vivere: tutti si danno del tu e si vogliono bene». E Maria Paola: «Voglio tornare alla Mariapoli il più presto possibile. Prego le persone che hanno la stessa intenzione di mettersi in contatto con me».
 
I complessi in gara, eccettuati i fuori programma (come ad esempio il “Gen Rosso”, che sabato 6 maggio si esibirà alla tv italiana per salutare le prossime olimpiadi di Monaco) sono una quindicina, di cui nove italiani. Non tutti tecnicamente all’altezza, per la verità, di partecipare a un "festival". Ma essendo questa la prima edizione, e per di più quasi improvvisata, ed essendo il motivo di fondo di questo incontro ben altro, come abbiamo visto – né mancando tante altre cose valide e promettenti — anche qualche stecca  non disturba. «Anzi al pubblico è piaciuta molto l’originale idea della giuria di dare a ciascuno un premio, e per di più il primo. Solo le motivazioni cambiavano. Così il “Lord Flower”, venuto dall’Austria, s'è preso il primo premio per le voci, il “Gen Sprint” della Mariapoli Aurelia, per la musica, il "Gen Swiss", della Svizzera, per l’orchestrazione…
 
Il fatto è che gli uni – quelli che cantano e suonano – non son venuti tanto per mettersi in mostra, quanto per donar qualcosa di sé; e gli altri – quelli che ascoltano – non tanto per godersela, quanto soprattutto per accogliere chi si offre loro.
 
Per la prossima edizione, che sarà fra un anno, (dal 29 aprile al primo maggio del ’73), si prevede comunque una cura maggiore nella scelta dei complessi, e nella preparazione tecnica. Chissà – ha osservato qualcuno – che non ci sia anche una maggiore partecipazione di complessi femminili?
 
C’è chi pensa qui che un festival come questo dovrebbe durare più di tre giorni: una stagione intera, un anno magari: «Qui sì che si sta bene! – si sente dire – tutto sembra facile e liscio…».
 
Ma chi ha un po’ di esperienza resta coi piedi per terra. E questo, badate, non per sminuire il valore delle cose, perché certi incontri non si dimenticano. Riporto in proposito quel che mi ha confessato un ragazzo (non ricordo il nome) che dormiva in tenda: «Essendo già venuto altre volte, avevo superato la fase, per così dire, dell'entusiasmo. Così ho voluto passare di nuovo alcuni giorni qui per vedere la concretezza di tutto questo mondo. E ho visto che qui non ci si può imborghesire».
 

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