1185 giorni d’ingiustizia

“Mi domando, cara Silvia, che cosa posso insegnarti dalle mura di Regina Coeli. Fra le mura della 16 bis, dove fa un caldo atroce. Siamo sei disperati, e fuori si vede il cielo. Che posso insegnarti, mi chiedo: perché è a te, devi saperlo, è a te che il mio cuore più spesso vola. . .”. Sono, questa ed altre lettere scritte col “sangue dell’anima”, riunite ora in volumetto(1) a cura della principale destinataria, quella Silvia Tortora il cui padre Enzo, giornalista e presentatore televisivo tra i più popolari, salì alla ribalta negli anni Ottanta per quello che si sarebbe rivelato uno dei più clamorosi errori giudiziari del nostro dopoguerra. Una vera odissea dalla quale Tortora uscì fisicamente distrutto anche se moralmente vincente. Di quel fatale 17 giugno 1983, giorno del suo arresto con l’accusa assurda di “associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di armi e droga”, Silvia, all’epoca adolescente “contestatrice” nei riguardi del padre, ricorda: “Quando gli mettono le manette ai polsi Tortora comincia la sua seconda vita. E io capisco di volergli davvero molto bene. Non era più l’uomo da dividere con 28 milioni di italiani teledipendenti (si riferisce a Portobello, programma che dal 1977 al 1983 registrò i record d’ascolto della seconda rete Rai, n.d.r.), ma un padre cui era capitata una mostruosità. Mai vista un’accusa così infame su un individuo tanto sbagliato. Tortora era uno che non fumava, non “tirava” e alle nove di sera andava a letto con un libro di Karl Popper. Uno noioso, che non aveva società all’estero, non evadeva il fisco, non frequentava i vip e neppure le ballerine. Uno fuori tempo”. Le lettere documentano fra amarezza, ribellione, sconforto – ma sempre con dignità – il crescere di un tenerissimo rapporto padre-figlia legati da “un magico filo”; e al tempo stesso, di un impegno di solidarietà verso gli “umiliati e offesi” come lui, quanti non hanno la possibilità di far sentire la loro voce: l’Italia degli onesti, insomma, contrapposta all’altra, di cui si sente vittima e verso cui prova solo disgusto. È proprio vero che “quando mi si indurrà in battaglia, là si mostrerà il mio valore”, che solo sotto la sferza del dolore e delle purificazioni l’uomo sa dare il meglio di sé. E queste lettere, non certo scritte per essere pubblicate, lo testimoniano a sufficienza. Scorrendole, viene da chiedersi: senza questa tristissima vicenda che ha fatto di un garbato e intelligente uomo di spettacolo un mostro da additare al pubblico disprezzo, si sarebbe palesata – anche agli stessi familiari – tutta la statura morale del personaggio? Tortora, quasi moderno Giobbe colpito dalla sventura all’apice del successo, non parla di Dio. Se sia stato credente non so, non credo (e comunque, per quel suo anelito alla giustizia, reso più acuto dalla traumatica esperienza subìta, come non accomunarlo a quei “perseguitati per la giustizia” che Gesù chiama beati?): fa specie però che tra le lettere di solidarietà ricevute, una in particolare il presentatore abbia apprezzato, inserita ora nella pubblicazione: scritta da un detenuto, recluso in un carcere del Sud, così terminava: “Spero che il suo caso si risolva al più presto e si ricordi che la giustizia di Dio c’è. Solo che cammina più lenta. Ma più giusta”. E giustizia fu fatta. Assolto con formula piena, il 20 febbraio 1987 Tortora tornava in tivù con la Rai, che riproponeva la fortunata trasmissione Portobello. Sorridente, ma segnato dalla lotta nel volto e nel fisico. La sua prima frase pronunciata nella diretta televisiva, dopo un lunghissimo applauso, fu: “Dove eravamo rimasti?”. Tre mesi dopo, il 18 maggio, il lottatore che aveva vinto la sua battaglia si faceva sconfiggere solo dal cancro. Aveva 59 anni. CRONISTORIA DI UN “CASO ” 17 giugno 1983 – Enzo Tortora viene arrestato all’Hotel Plaza di Roma e, nonostante sia colpito da collasso cardiaco, trasferito al carcere di Regina Coeli. L’ordine di arresto è stato spiccato dalla Procura di Napoli in seguito alle “confidenze” di due pentiti della Nuova Camorra Organizzata pluriomicidi. 15 agosto – A causa delle sue precarie condizioni di salute, viene trasferito nel carcere di via Gleno a Bergamo, più attrezzato clinicamente. 29 settembre – Secondo interrogatorio e nuove accuse (tutte poi smontate): un oscuro pittore afferma di averlo visto spacciare droga negli studi di una televisione privata; e inoltre il suo numero di telefono sarebbe stato ritrovato nella rubrica telefonica di un malavitoso rinchiuso nel carcere di Lecce. 1° ottobre – Il Corriere della Sera pubblica un articolo nel quale si contesta a Tortora, tra l’altro, di essere proprietario di yacht e aver rubato i fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, raccolti attraverso alcune trasmissioni tv. Giornale e giornalista verranno in seguito condannati per diffamazione, ma intanto in cella il presentatore viene colto da un secondo attacco cardiaco. 17 gennaio 1984 – Gli vengono concessi gli arresti domiciliari per motivi di salute. 9 marzo – A Napoli, nella caserma Pastrengo, per il confronto con due nuovi “pentiti” della mala milanese: anche le loro accuse, riguardanti consegna di droga e partecipazione ad una riunione camorristica, risulteranno false. 17 giugno – Tortora viene eletto deputato al parlamento europeo con oltre 500 mila voti. 4 febbraio 1985 – Ha inizio a Napoli il maxiprocesso contro la Nuova Camorra Organizzata, che durerà sette mesi. 17 settembre – Condannato a dieci anni e sei mesi di reclusione, in realtà contro di lui non esistono prove, solo le parole dei cosiddetti “pentiti”, aumentati ad 11. 10 dicembre – Pronuncia il suo discorso di dimissioni davanti al Parlamento europeo. 29 dicembre – Di nuovo agli arresti domiciliari. 20 maggio – Comincia a Napoli il processo di secondo grado dinanzi alla quinta sezione della Corte d’appello. 15 settembre – Dopo 1185 giorni di odissea carceraria, colui che era stato condannato perché “socialmente pericoloso” e “cinico mercante di morte” viene assolto con formula piena, e con lui altri 114 imputati.

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