100 anni di Primo Levi, chimico, partigiano e testimone

Detenuto nei lager nazisti, ci ha lasciato opere fondamentali per capire la tragedia dei campi di concentramento e il ritorno alla vita dei sopravvissuti, come Se questo è un uomo e La tregua

Un secolo fa, il 31 luglio 1919, nasceva Primo Levi. Fu chimico, partigiano, ma fu soprattutto uomo sopravvissuto all’Olocausto. Fu prigioniero di un campo di concentramento e narratore fondamentale di cosa sia stata quella tragedia, quell’abisso umano. Scrisse Se questo è un uomo, del 1947, un libro importantissimo e pieno di dolore, toccante. Un testo imprescindibile sulla violenza, la paura e la sopraffazione nei lager.

Scrisse poi La tregua, che racconta il suo viaggio di ritorno in Italia dopo la liberazione: un’odissea durata quasi nove mesi, che dal gennaio 1945 terminò solo ad ottobre. Vi lavorò dal 1962, e sul tema della Shoah Levi tornò fino a poco prima di morire, nel 1987. L’ultimo suo libro, del 1986, è I sommersi e i salvati, il quale, diviso in otto capitoli, torna con grande lucidità nell’orrore vissuto in prima persona.

Per chi volesse avvicinarsi a Primo Levi attraverso il cinema, oltre alla fondamentale lettura dei libri citati, le opere dedicate a questo straordinario personaggio sono un paio, entrambe collegate al suo viaggio di ritorno dalla prigionia. La prima fu diretta nel 1997 dal maestro Francesco Rosi – tra l’altro fu l’ultimo film del regista – e il titolo riprende esattamente quello del libro di Levi: La tregua. Il protagonista è interpretato da John Turturro, e si racconta il lungo viaggio che va dal 27 gennaio 1945, quando i soldati russi giunsero a Buna-Monowitz, in Polonia – una delle sezioni di Auschwitz dove Levi era prigioniero – fino all’ottobre di quell’anno, quando lo scrittore ebreo tornò nella sua Torino. Rosi girò in luoghi freddi come Ucraina e Polonia, dove è ambientato il romanzo, e dove – come disse in un’intervista del 1997 subito dopo l’uscita del film al giornalista Marco Spagnoli -, fu possibile ritrovare «volti ed espressioni descritti da Levi e fermi in quei luoghi da oltre cinquanta anni».

All’intervistatore, Rosi spiegò anche cosa aveva voluto raccontare col film: «L’odissea del ritorno alla vita di un gruppo di esseri umani scampati all’inconcepibile disegno nazista dello sterminio preordinato di ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti politici, malati e di tutti coloro i quali fossero “diversi” per un motivo o per l’altro dalla razza ariana». Il tema della vita che resuscita dopo lo scontro con questa follia è un’occasione enorme di meditazione anche sui misfatti del presente. «Ciò che mi stimolava maggiormente – aggiunse il regista nel dialogo con Spagnoli- era raccontare sullo schermo quello che sembrava essere riuscito così facilmente a Levi; ovvero la riconquista della vita, il ritorno della speranza, attraverso le naturali, piccole, grandi e gioiose occasioni di ogni giorno che finiscono per affermare la superiorità della vita sulla morte».

Il viaggio di quasi nove mesi che Primo Levi intraprese per tornare a casa è raccontato anche nel documentario on the road, in forma diaristica, La strada di Levi, del 2006, del regista Davide Ferrario in collaborazione con Marco Belpoliti. Sessant’anni dopo, insieme, il cineasta e lo scrittore hanno ripercorso le varie tappe del ritorno di Primo Levi a casa, raccontando, però, anche com’era diventata l’Europa post-comunista dopo molto tempo. Nel film le parole di Primo Levi si integrano benissimo con le immagini del presente: «Avevo sempre con me il libro di Levi – disse il regista in occasione dell’uscita del film – e le due esperienze, vedere e leggere, sono state quasi sempre simultanee e dialettiche».

Anche il cinema, insomma, si è messo al servizio dell’esperienza di Primo Levi. E umilmente, con tutte le difficoltà di rendere sullo schermo una storia così profondamente dolorosa, sta lì, a dare il suo contributo per tenere viva la memoria, perché le parole si Primo Levi suonino sempre forti e chiare, perché tutto questo non accada mai più.

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