“Padre Fedele deve essere aiutato”

Dopo la condanna all’ex frate fondatore dell’Oasi dei poveri per stupro, intervista alla madre generale della religiosa vittima delle violenze
padre fedele bisceglia

La condanna è stata per così dire esemplare. Giudicato colpevole di violenza sessuale ai danni di una suora, Fedele Bisceglia, ex frate francescano fondatore dell’Oasi dei poveri, è stato condannato dal tribunale di Cosenza a nove anni e tre mesi di reclusione. Più di quanto avessero chiesto i pubblici ministeri, che si erano fermati ad otto anni. Sei anni e tre mesi, per lo stesso reato, sono invece stati inflitti ad Antonio Gaudio, segretario dell’ex religioso.

 

La vicenda

I fatti sono noti. Padre Fedele, esuberante religioso, molto conosciuto per la sua passione per il Cosenza calcio e per aver convertito una pornostar, finì in carcere nel 2006 con l’accusa di stupro. A denunciarlo, per ben cinque episodi di violenza, una suora, che riferì ai magistrati di essere stata costretta ad assumere farmaci che l’avrebbero poi resa succube dei due uomini. Nel 2007, padre Fedele fu espulso dall’Ordine dei Cappuccini per le sue intemperanze (non per il processo) per le quali aveva già avuto tre ammonimenti. Dopo la lettura della sentenza, l’ex frate ha dato in escandescenze, continuando a proclamare la propria innocenza.

 

L’intervista

Un sospiro di sollievo è invece arrivato dalla parte lesa. Giustizia è stata fatta, è stato detto. Con suor Tiziana Merletti, madre superiora delle Francescane dei poveri, che da subito sono state vicine alla vittima delle violenze, ricostruiamo questo lungo e difficile percorso giudiziario.

 

Nella vicenda che ha visto coinvolta una delle sue suore, l’intero Ordine ha avuto un ruolo di primo piano: siete state  vicine alla vostra consorella e l’avete assistita in tutto il percorso giudiziario. Una posizione che è sembrata innovativa, oltre che molto positiva, nonostante le critiche che da qualche parte pure sono arrivate. Ce la spiega?

«È molto semplice. L’appartenenza ad una comunità religiosa ci porta a condividere, per quanto è possibile, i traguardi e le sconfitte naturali in ogni esistenza. In questo caso, è stato immediato per la nostra comunità di Francescane dei poveri stringersi intorno alla nostra sorella e accompagnarla nel suo durissimo percorso. Giorno dopo giorno abbiamo cercato di assicurarle uno spazio di affetto, preghiera, sostegno, protezione, incoraggiamento, soprattutto quando lo strazio dei ricordi che intanto affioravano si faceva più acuto. Grazie alla sua testimonianza, gli occhi e il cuore della comunità si sono aperti anche sulla situazione in cui si erano trovate e si trovavano altre donne immigrate, ospiti della stessa struttura, fatte vittime e sfruttate proprio a causa della loro vulnerabilità.

 

«Scegliere il percorso della denuncia è stato il frutto di tanta preghiera e riflessione. Ciò che alla fine ha prevalso è stata la convinzione che senza questo atto di coraggio, altre donne e ragazze sarebbero senza dubbio cadute vittime della stessa trappola. Ricordo ancora quando al telefono ho chiesto alla nostra sorella: “Sei consapevole delle conseguenze che ci saranno per te? Sei sicura di volerlo fare?”. Lei mi rispose: “Sì, sono pronta. Lo voglio fare per tutte le altre donne che non possono denunciare casi simili, perché non hanno alle spalle una comunità come ce l’ho io”. E su questo atto d’amore, l’abbiamo accompagnata dalla polizia».

 

Episodi di violenza di questo tipo, ma anche più in generale quelli di pedofilia, sembrano essere ancora dei tabù. Eppure minacciano la credibilità stessa della Chiesa. Come affrontarli?

«Abbiamo bisogno di nuovi percorsi di guarigione per le ferite antiche e nuove che dilaniano la nostra Chiesa. Cosa fare? Trovare le risposte giuste è un impegno che sta a cuore a tanti, ma non è facile. L’esperienza ci sta comunque insegnando che di fronte a membri malati, non possiamo essere più preoccupati di coprire lo scandalo che occuparci di aiutare la persona e di proteggere le possibili vittime. E questo non si fa certo continuando a spostare “i casi problematici” da una parte all’altra, nella speranza che un diverso incarico possa giovare. Perché non creare delle unità interne a livello diocesano, con la presenza di specialisti in varie discipline, laici ed ecclesiastici, che esaminino con trasparenza e competenza i casi particolari e facciano raccomandazioni all’autorità competente su come procedere? Questo forse aiuterebbe ad intervenire con più prontezza e ad assicurare che, laddove ci fosse reato, risulterebbe congruente ricorrere alla giustizia civile».

 

Come sta adesso la suora vittima delle violenze e qual è il vostro sentire verso padre Fedele, anche alla luce delle dichiarazioni da lui fatte dopo la sentenza?

«La nostra sorella sta meglio, è ben inserita in mezzo a noi e ha ripreso il suo servizio di apostolato, con la generosità che l’ha sempre contraddistinta. Per quanto riguarda il sig. Francesco Bisceglia, ex p. Fedele, non possiamo che provare pena e pregare perché rientri in sé stesso e si renda conto di quello che ha fatto. La mia impressione è che andava aiutato molto tempo addietro».

 

La stampa ha riportato una dichiarazione in cui affermate che quella della sentenza è stata una giornata importante per tutte le donne ed è una sentenza a favore di tutte le donne. Ma, forse, lo è stato di più perché a denunciare è stata una religiosa?

«Direi di sì, considerato il fatto che mi pare sia la prima volta che una religiosa trova il coraggio di denunciare un abuso subito da un religioso. Certo è che non ci aspettavamo un accanimento mediatico così diffamatorio e violento, frutto di una mentalità arretrata, maschilista e patriarcale. Non è emerso un quadro troppo incoraggiante di ciò che ci si aspetta da una religiosa del XXI secolo. Con questa sentenza, sentiamo che il Signore ci ha consegnato un segno di speranza: sta a noi ora far sì che porti i suoi frutti. I compagni di viaggio sono tantissimi, e tra questi certamente i lettori della vostra rivista Città Nuova!».

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