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In profondità > In punta di penna

Janine, il Libano che non si arrende

di Michele Zanzucchi

- Fonte: Città Nuova

Michele Zanzucchi, autore di Città Nuova

Una donna che ha saputo creare dal nulla un piccolo impero di solidarietà, di affetto, di fraternità concretissima. Resta incastonata nei cuori di tutti coloro che ha aiutato

Il Paese dei cedri è un mondo a parte, unico sul pianeta. In un contesto politico disastrato, continua a sfornare intelligenze superiori, mentre tanti dei suoi abitanti fanno fortuna per il mondo intero, a Kinshasa, San Paolo, a Jakarta. I libanesi vedono emergere nel popolo personalità che sommano in sé la creatività araba, la finesse europea, l’intraprendenza degli americani, l’erudizione mediterranea. E anche degli eroi della solidarietà, se vogliamo grandi santi. Janine Safa è una di queste personalità: ha saputo nella sua lunga vita − che ha accompagnato dal 1943 l’intera vita dello Stato libanese, tra guerre fratricide, rinascite assolutamente imprevedibili, convivenze impensabili e tragedie abominevoli −, creare un piccolo impero di solidarietà. Se n’è andata in silenzio, come suo solito.

Foto di FadelAdib https://commons.wikimedia.org

Janine ha fatto tutto quel che ha fatto, per giunta, con una benedizione particolare di Madre Natura, che ha creato un Paese “di latte e di miele”, direbbe la Bibbia, in cui il mare e la montagna si baciano, non hanno soluzione di continuità, in cui in 24 ore si può fare il bagno a ammirare le rovine di Byblos, la città abitata continuativamente da più tempo del Mediterraneo a Batroun, si venera la Vergine a Notre-Dame du Liban, si visitano insediamenti fenici, greci e romani verso Faraya, si sale a sciare a Kfardebian, si cena in un ristorante con una vista sul tramonto da urlo sulla Corniche di Beirut. Janine è una figlia di questo Libano. La creatività generosa impersonificata.

Veniva – anzi viene, usiamo il presente della storia − da una famiglia composita ricca di genialità e di imprenditoria, abituata a creare ricchezza dal nulla. Janine è una imprenditrice solidale santa, sa creare dal nulla il surplus della carità. Il suo è un grande carisma, nel senso paolino del termine, un carisma di azione e accoglienza, legato alla capacità di mettersi in relazione e dialogare con tutti, un carisma intriso di fede cristiana ma capace di guardare a tutte le fedi. Dal nulla Janine fa nascere l’Irap (assieme a Souad Ballita), ancora negli anni ’60, un istituto di riabilitazione audiofonetica per curare bambini e ragazzi affetti da sordità e malattie legate all’udito. Durante la guerra risponde al bisogno impellente che ha nel cuore: «E se fosse mio fratello?». Nasce così la Maison Notre-Dame: centro sociale polifunzionale che accoglie cristiani e musulmani, all’interno del quale vi è un asilo per bimbi dai 3 ai 5 anni. E poi l’atelier Ayadina che dà a tante giovani donne una reale opportunità di formazione e lavoro.

A ogni guerra che scoppia, Janine riesce a creare qualcosa di nuovo. Così, ad esempio, è dell’azione del sostegno a distanza di Famiglie Nuove, sorto in Libano in pieno periodo dell’infinito conflitto degli anni dal 1975 al 1990. Si occupa di orfani o in condizioni di estrema necessità. «Aiutateci a crescerli nella nostra patria», era stato all’epoca l’appello di Janine, che aveva a cuore ogni disagio e si è subito messa a disposizione per fare crescere questo programma che si è poi strutturato sempre di più e allargato anche ad altri Paesi del mondo. Janine vive in ognuno di questi bambini diventato adulto, e il più delle volte inserito in una vita finalmente “normale”.

Presentiamo quest’oggi, inedito, il racconto di uno scorcio della sua vita, scritto per un libro di prossima pubblicazione sui testimoni della libanesità, una testimonianza fatta a due voci, da lei e da Nicole Hélou, una delle compagne di viaggio nell’avventura dell’Irap, colei che ora prende il testimone di Janine all’Irap. Siamo nel corso della guerra del 2006, l’ultima della lunga serie. Con altre associazioni umanitarie, Janine e Nicole avevano cercato di far fronte all’emergenza. Ecco il loro racconto, così come lo raccolgo.

«Biakout – mi spiegano Janine e Nicole –, come tutti i villaggi libanesi che non erano stati bombardati, era gremito di famiglie sfollate dalle regioni a sud di Beirut. Le case, le scuole e persino gli edifici in costruzione accoglievano senza distinzione cristiani e musulmani. Al Centro medico sociale, Acia, con la quale avevamo iniziato la nostra avventura nella periferia di Beirut, era arrivata con centinaia di famiglie che avevano fuggito il sud. L’avevamo trovata sulla spiaggia, senza tetto, senza viveri. Da allora era con noi. Acia nel 2006 accolse a casa sua delle famiglie del suo villaggio nel sud: tre famiglie e due vecchietti soli. La sua situazione economicamente precaria non le impediva di condividere tutto con gli altri. “Ci arrangiamo come è possibile – ci diceva –. Meno male che siamo in estate: gli uomini dormono così sulle terrazze. Abbiamo bisogno di materassi e soprattutto di medicine per i bambini, ma anche per mio marito Geries, che da un anno è afflitto da una sclerosi muscolare. Oggi altre famiglie si sono istallate da Saidé, la mia vicina, in condizioni pessime. Hanno bisogno di tutto”».

Un secondo brano della testimonianza delle due donne libanesi è invece ambientato ad Ain Aar: «Sono le nove di sera – raccontano ancora Janine Safa e Nicole Hélou –. Abbiamo appena saputo dell’arrivo di due famiglie di Tiro. Il parroco le ha ricevute in un convento vicino ad Ain Aar. Con lui ci rechiamo a salutarle e a portare qualche pacco di alimenti appena ricevuti da un gruppo di scout. Fa buio pesto. Un uomo ci saluta, si chiama Hussein, e ci presenta i due figli, Ibrahim e Ali. Anche una donna, con una bimba in braccio, si avvicina: “Siamo fuggiti da Tiro questa mattina. Ci siamo fermati all’ospedale di Sidone perché il piccolo era rimasto ferito alla gamba mentre scappavamo. Gli hanno messo dei punti”. Entriamo. La hajjé, la nonna, col volto disfatto, ci saluta con un filo di voce: “Che Dio sia con voi”. Il parroco offre ai capifamiglia di lavorare un vicino campo che appartiene al convento. Al momento di partire, Mountaha – la moglie di Hussein – ci accompagna sotto il cielo stellato: “Ma è proprio vero che anche qui siamo in guerra?”, viene da chiederci. Appena posta la domanda, il rombo degli aerei riempie il cielo, spaventando la donna: “Anche qui? Pensavamo di essere al sicuro”. La rassicurano: “Non temere, li sentiamo solo passare». «Non possiamo più neanche sentirli”, mi risponde Mountaha con parole stanche. Una voce riempie la notte: “Qui siamo nella casa di Dio, quindi, da lui non c’è niente da temere”. È Hussein».

Commovente, poi, il racconto di un episodio accaduto a Kaouzah: «La giornata si annuncia piena – scrive questa volta Nicole Hélou –. Bisogna organizzare l’arrivo di pacchi per i bebè, preparare le casse di cibo, comprare medicine, cucire lenzuola… Le volontarie, fedeli dal primo giorno in cui le abbiamo chiamate “al fronte”, arrivano fresche e piene di energie. Tutti indaffarati, giovani e adulti. Martha con le sue nipoti, Pierrette e Janette, sono già in piedi di buon mattino. Arrivano all’ora del caffè come uccellini appena svegli. Pierrette ha 6 anni e ci canta canzoni in tante lingue diverse con un forte accento del sud. Janette, 4 anni, che soffre di squilibri nello sviluppo, balbetta qualche parola incomprensibile. Di colpo un pianto: è Pierrette che vuol andare a ritrovare la nonna, rifugiata altrove. Eccoci allora in macchina verso Kaouzah. Al nostro arrivo, le bimbe corrono ad abbracciare la nonna. In un gruppo di persone sedute per terra, in cerchio, cerco volti conosciuti. Ecco Barbara, ad esempio, che sprizzava sempre energia. Oggi è persa in questa folla di gente del suo villaggio, con un sorriso spento sulle labbra. Attraverso un lungo corridoio del primo piano della scuola che funge da casa di accoglienza. Dietro alle porte socchiuse scorgo bambini che giocano sui materassi, signore che spazzano, giovani che chiacchierano. In fondo al corridoio, ecco la famiglia Felfly. Per terra, su un materasso, Mariam, Mario, Mélanie seduti attorno a Sabté. Abbraccio tutti, sono cosi felice di ritrovarli. Ma Sabté rimane imperterrita, con un sorriso perso nel vuoto, senza reazioni. Mi guarda appena. “Sabté, sei tu?”. Guardo i fratelli e le sorelle, cercando di capire: dov’è quella bella giovane che andava a scuola di giorno e che s’incaricava della famiglia al ritorno, accogliendo sempre tutti con un sorriso luminoso? Mi siedo per terra di fronte a lei, la guardo negli occhi. “Sono stanca – mi dice con uno sforzo immane –. La testa mi fa male, ho delle vertigini. Abbiamo vissuto momenti di incubo. Siamo scappati, sotto le bombe. Ho avuto paura. Non guardavamo indietro, c’era solo da correre. Ora sono stanchissima!”. Il mio cellulare suona. Sabté si rianima. “Posso provare a chiamare un’amica?”, mi chiede. Riprende a vivere, inanella una telefonata dietro l’altra. Si confida, e piano piano rivedo il suo sorriso. Mi chiede di portarle alcune cose che mancano ai suoi, non vuole niente per lei. Quando le chiedo di scattare una foto insieme, è felice. E quando le prometto di dargliela, mi salta al collo. Poi tutti vogliono farsi delle foto. Di colpo è festa: ridiamo come bambini mentre cerchiamo di trovare la migliore posa; anche il padre, al solito burbero, ci raggiunge e vuole la sua foto col bastone».

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