Israele e Palestina: la tregua dei vincitori

Alle 2 di notte di venerdì 21 maggio, dopo 10 giorni di guerra, è scoppiata la tregua tra Israele e Palestina. Una tregua che senza nuove premesse non porterà certamente alla pace. Ma per il momento meglio la tregua alle violenze dei giorni precedenti.

Tregua nel conflitto fra Israele e Hamas dopo 10 giorni di accanita violenza. Oltre 4 mila i missili (realizzati a Gaza con soldi e consulenza iraniani, siriani ed Hezbollah libanesi) lanciati sulle città israeliane, la maggior parte intercettati dal sistema Iron Dome (progetto israeliano, finanziamenti statunitensi), con 12 morti, oltre 300 feriti, molta paura e vari danni. E la risposta del governo israeliano: i bombardamenti aerei hanno provocato circa 240 morti, 2 mila feriti, 47 mila sfollati e 132 edifici rasi al suolo (fra i quali l’unico laboratorio per i test Covid presente a Gaza).

E quindi, chi ha vinto? Entrambi, ovviamente: Hamas e Netanyahu. Cioè i due contendenti asimmetrici che si sono attribuiti la rappresentanza rispettivamente di Palestina e Israele.

D’altro canto si intuiva già da prima che sarebbe andata così. Perché, in realtà, non era in gioco tanto una contesa muscolare in vista della sconfitta di uno dei due contendenti (come capacità militare e armamenti Hamas e la Jihad islamica sono come una mosca nei confronti di un elefante, rappresentato da Israele). Non c’è nessuna possibilità che gli islamisti palestinesi possano fare altro nei confronti di Israele che provocarlo, intrecci e interessi internazionali a parte. La vittoria che Hamas rivendica sotto banco (ma che tutti gli attori percepiscono) sembra piuttosto quella sull’ala moderata dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) rappresentata da Fatah e dal suo ottantacinquenne leader Abu Mazen, in qualche modo finora fautore di una linea negoziale con Israele (e aperto al ritorno dei copiosi aiuti Usa bloccati da Trump), anche se il suo mandato come presidente dell’Anp è scaduto da 12 anni. Ma fare un’elezione da queste parti, si sa, è pericoloso. Si rischia di peggiorare le cose anziché migliorarle.

Dall’altra parte c’era un Netanyahu in cerca di un’occasione per riabilitarsi come salvatore della patria minacciata. Un Netanyahu (premier da 12 anni) che stava per essere messo da parte: per l’impossibilità di varare un governo (con i partiti ultraortodossi); per i processi per corruzione e attacchi dell’ennesima miscela di avversari politici. Il titolo di salvatore della patria, però, Netanyahu non poteva certo rivendicarlo con meno morti e danni di così, tanto più che i gruppi di ultradestra israeliana (quella che vuole “eliminare” gli arabi dalla Terra di Israele) lo accusano di aver accettato troppo presto la tregua perorata da Joe Biden e mediata da al-Sisi.

Il concetto di “due popoli due stati” ancora romanticamente sostenuto dall’Ue è praticamente di fatto scomparso sotto l’incessante avanzata degli insediamenti israeliani nei territori della West Bank e di Gerusalemme Est, quelli che un tempo costituivano il territorio dell’Anp, il possibile “stato” palestinese vagheggiato a Oslo nel 1993 da Rabin e Arafat. Sono probabilmente 700-750 mila gli ebrei delle colonie, in 150 insediamenti e oltre 100 avamposti (tutti illegali secondo il Diritto internazionale) che controllano il 42% del territorio cosiddetto palestinese (e l’86% di Gerusalemme Est). Una tattica di “occupazione” che ha ormai poco o nulla a che vedere con il progetto del padre del sionismo, Theodor Herzl, che immaginava Gerusalemme come città aperta, luogo di tolleranza e dialogo fra ebrei, musulmani e cristiani.

La “Pace di Abramo”, fortemente imposta da Trump e Netanyahu, aveva lo scopo piuttosto evidente di affossare i “due popoli due stati”. Che ne farà Biden della pax americana che puntava ad eliminare il problema palestinese con vagoni di dollari in investimenti stranieri e posti di lavoro a gogò (con ottimi utili per gli investitori, molto meno per i fruitori), ma che Hamas (e non solo Hamas) non accetterà mai?

Per il momento, nella totale mancanza di prospettive durature di pace, non ci resta che apprezzare questa tregua concordata fra i due “vincitori” del round. Ben sapendo che il match, la risoluzione della “questione palestinese”, non è solo di là da venire, ma è tutto da inventare, né più né meno che oltre 70 anni fa quando sorse, e più di un secolo fa quando ne furono poste le premesse.

Per quanto mi riguarda, pensando alla gente più che ai politici, faccio mia una considerazione di Ugo Tramballi, Ispi senior advisor: «So che se vi dicessi che io sto con entrambi, israeliani e palestinesi, suonerebbe molto banale e retorico. Ma non posso farci niente, è proprio così».

Per fortuna, c’è anche in Terra Santa chi non si schiera e continua a sperare contro ogni speranza che potrebbe venire un giorno in cui ci sarà un solo Paese dove tutti avranno uguali diritti e doveri. Ma occorre partire da nuove premesse, quelle attuali non contemplano la possibilità della pace.

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