Il 39° incontro tra Vladimir Putin e Xi Jinping, i leader russo e cinese in sella ai loro Paesi rispettivamente dal 2000 e dal 2013, si è svolto in una sala in stile veterosovietico: tavoli a ferro di cavallo lontanissimi l’uno dall’altro, per giunta separati da un massiccio floreale veramente tale. Non c’erano solo i due tenori, al tavolo erano seduti anche i leader degli altri 6 (più uno) Paesi che compongono l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS), e cioè Kazakistan, Kirghizistan, e Tagikistan (membri fondatori nel 1996), Uzbekistan (dal 2001, Samarcanda è in questo Paese), India e Pakistan (membri effettivi dal 2017), e Iran (dal 2021, in attesa di diventare membro effettivo). Mongolia, Bielorussia e Afghanistan sono Stati osservatori. La richiesta degli Usa di essere ammessi egualmente come osservatori nel Gruppo era stata respinta nel 2006, adducendo come motivazione la mancanza di una frontiera comune. In quella data è iniziato in effetti il nuovo corso russo di matrice putiniana.

Forse il lettore medio italiano avrà sentito parlare di tale Gruppo solo di recente, nelle contestazioni scoppiate ad Almaty e in altre città del Kazakistan nei primi giorni dell’anno, quando Mosca inviò truppe antisommossa a Nursultan e dintorni proprio in forza del trattato di mutuo soccorso del Gruppo di Shanghai: la cooperazione tra i Paesi membri, infatti, opera sui tre livelli della sicurezza, dell’economia e della cultura. In realtà il gruppo non ha strutture stabili e comprovate da decenni di lavoro comune come l’Alleanza atlantica, ma si pone, almeno potenzialmente, come un’organizzazione antagonista alla Nato.
Certamente, anche se le analogie non sono molte, si potrebbe pensare a una Nato asiatica per la difesa di certe zone del pianeta che ricadono sotto l’influenza dei due grandi, dei due mastodonti cinese e russo, mentre gli indiani appaiono ancora discretamente defilati e non paiono dare troppo peso, ancora, al Gruppo. Vi sono comunque 4 o 5 potenze nucleari, analogamente a quanto accade per la Nato. Il Gruppo, però, appare largamente asimmetrico per la evidente volontà cinese e russa di considerarlo una organizzazione guidata da Mosca e Pechino: la logica è quella dell’orticello di casa mia, cioè della protezione con cani ringhiosi delle zone di influenza in cui le potenze straniere (leggi Stati Uniti e loro alleati) non debbono nemmeno pensare di metter piede. Anche se almeno un Paese del gruppo, il Kirghizistan, per un periodo – fino al 2009 e poi fino al 2014 − ha avuto una base militare nell’aeroporto di Bishkek, in supporto delle operazioni in Afghanistan.
Alcune riflessioni sorgono spontanee di fronte all’esposizione di forza politica di Samarcanda. In primo luogo appare evidente come lo sguardo di Mosca stia diventando un po’ più strabico del solito, perché i russi non possono e non potranno fare a meno, per questioni storiche, economiche e culturali, di guardare verso l’Europa occidentale, e l’Unione europea in particolare; ma, contemporaneamente, stanno spostando la loro attenzione verso le nazioni nate dallo smembramento dell’Unione Sovietica e verso le potenze asiatiche. Anche se Nursultan, Bishkek, Dushambe e Tashkent guardano ormai più a Pechino che a Mosca. A Mosca si pasteggia sempre più a vino e mozzarella, non a riso e anatra laccata.
Seconda riflessione, la guerra in Ucraina è stata la grande innominata delle dichiarazioni ufficiali cinesi a Samarcanda: Pechino non vede di buon occhio l’avventura militare iniziata in febbraio, anche perché ha scombussolato non poco le carte in tavola sul dossier Taiwan. Non a caso, le tensioni tra Washington e Pechino sono cresciute a dismisura. Ma è soprattutto l’economia che preoccupa Xi e i suoi collaboratori: i fondamentali cinesi sono in grave ribasso, e rischiano di far saltare il meccanismo cinese di espansione nel mondo, basato sul “tesoretto” (gigantesco) che veniva dal differenziale tra import ed export cinese. Per di più la Cina comincia a risentire degli effetti della “politica del figlio unico” avviata ancora sotto Mao, chiamata anche “politica dei sei genitori” (i due genitori fisici e i 4 nonni), che viziano il loro unico oggetto d’affetto e unico erede. La Cina sta cioè invecchiando molto rapidamente. La guerra d’Ucraina complica gli affari cinesi.
Terzo elemento, spesso denigrato dai nostri politici filo-Nato e dai nostri media, ma invece frutto di riflessioni geostrategiche assolutamente legittime, che non sono un atto di aggressione all’Occidente: il mondo non può più essere monopolare, perché di fatto è già multipolare. La nostalgia per il breve periodo reaganiano e gorbacheviano in cui sembrava che, col crollo dell’Urss, il mondo fosse controllato ormai da un solo gendarme, non ha più ragion d’essere. Il rischio attuale è che il pianeta perda la sua multipolarità e diventi di nuovo bipolare. Gli osservatori sostengono che l’unico modo per evitare tale deriva, che dividerebbe il mondo in due − lato Washington e lato Pechino −, stia nella capacità di autonomia politica dell’Europa, in particolare dell’Unione europea, il cui verbo in realtà è invocato ovunque. In attesa del risveglio del continente africano.
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