La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, conosciuta come COP26, si è conclusa 13 novembre 2001 a Glasgow ed è stata sicuramente la conferenza più seguita dai media.
Un luogo in cui hanno lavorato molti delegati in maniera appassionata, affiancati da uno spettacolo in cui hanno recitato molti attori. I leader mondiali, con le loro promesse altisonanti, gli imprenditori, con le loro soluzioni, e degli attori non invitati, i manifestanti, tra cui i giovani del Fridays For Future e di Extinction Rebellion.
Una domanda resta sospesa, a cui molti hanno provato a dare risposta: cosa ha cambiato realmente la COP26? Proviamo a dare una risposta, dopo aver preso la giusta distanza temporale dall’evento. (
Se per molti è stato un fallimento, bisogna anche comprendere che, nonostante i suoi limiti, ha lasciato una base su cui poter edificare nel prossimo futuro.
Gli obiettivi della COP26 di Glasgow
La Conferenza delle Parti di Glasgow è partita con un enorme peso mediatico, quello di superare i risultati raggiunti alla COP21 di Parigi del 2015 ed ascoltare le richieste dei giovani che, da due anni, si impegnano chiedendo un reale cambiamento per salvare il pianeta ed il loro futuro. Gli obiettivi ambiziosi prefissati, sono stati solo in parte raggiunti al termine dei lavori.
Le azioni intraprese con il documento finale del Glasgow Climate Pact ) possono essere sintetizzate con 4 verbi, riprendendo i termini usati dalla presidenza inglese della conferenza:
- Mitigare gli effetti dello sviluppo, attraverso l’azzeramento delle emissioni nette a livello globale entro la metà del secolo e la limitazione dell’aumento delle temperature a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali;
- Adattare i modi con cui una parte di umanità cresce economicamente e tecnologicamente alla salvaguardia delle comunità e degli habitat naturali;
- Finanziare la transizione, soprattutto per i Paesi in via di sviluppo.
- Collaborare, dando piena attuazione agli accordi di Parigi.
La conferenza stampa congiunta USA-Cina
La conferenza stampa congiunta fra Stati Uniti e Cina, tenutasi il 10 novembre, verso il termine dei lavori della COP26, è stata la spinta per concludere con qualche risultato la COP26. Il testo finale delle due grandi potenze è stato una base fondamentale per costruire il Patto di Glasgow sul Clima. La successiva telefonata fra i due leader, il 16 novembre, ha chiarito, inoltre, il ruolo delle promesse pronunciate a Glasgow. Le iniziative da prendere e la strada congiunta da percorrere, per affrontare i cambiamenti climatici, rappresentano un utile strumento di diplomazia in grado di creare un contesto comune in un periodo di forte contrasto dal punto di vista geopolitico. Percorsi di collaborazione, dove costruire una via per l’apertura di un dialogo di pace. Sicuramente non è poco.
Mitigare: i Nationally Determined Contributions (NDC) cioè i contributi determinati a livello nazionale
L’impegno di limitare l’incremento della temperatura globale entro gli 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, è stato scritto chiaramente nel Patto sul Clima di Glasgow, superando il più generico riferimento di Parigi a rimanere sotto i 2°C.
Ma è un obiettivo che può essere raggiunto, come ha sottolineato il presidente Boris Johnson, solo con l’impegno di tutti i Paesi. Proprio l’impegno degli Stati è il vero tallone d’Achille. Sarà più semplice verificare il lavoro svolto per realizzare gli impegni presi attraverso gli NDC, Nationally Determined Contribution, il documento che illustra le azioni che ciascun Paese pianifica per ridurre le emissioni nazionali e raggiungere gli obiettivi contenuti negli Accordi di Parigi. Ma molte delle decisioni sostanziali sull’argomento sono state rinviate al 2022, alla COP27 a Sharm El-Sheikh.
Alla conferenza non è mai realmente entrato un argomento fondamentale per qualsiasi accordo, il principio di equità e di responsabilità differenziata fra i Paesi, fra chi ha cagionato questa crisi e chi l’ha subita.
La questione degli aiuti ai Paesi in via di sviluppo, non è solo una questione climatica, ma di giustizia verso popolazioni che pagano le conseguenze del nostro sviluppo. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti gli occidentali con l’emigrazione di massa di persone in cerca di un futuro migliore. Se la risposta dei Paesi ricchi è alzare muri, respingere e reprimere, di fronte alla crisi ecologica, la risposta è la medesima e verrà riproposta ad ogni incontro istituzionale. Questa è la chiave per leggere le COP26.
Quindi, a Glasgow, il limite del 2050 per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni di gas serra da attività umane non è stato fissato espressamente, convenendo verso un riferimento temporale verso la metà del secolo. Si è riusciti ad inserire, però, una riduzione delle emissioni di emissioni globali di anidride carbonica immesse nell’ambiente del 45% al 2030.
Purtroppo le azioni di mitigazione hanno risentito dell’azione dei Paesi in via di sviluppo, ed in particolare dell’India con l’appoggio della Cina , perché, di fronte alla mancanza di sostanziali aiuti dei Paesi più ricchi, l’accordo sull’uscita dall’uso del carbone per produrre energia elettrica sarebbe stato troppo oneroso per i Paesi più poveri.
Perciò l’accordo è stato rivisto inserendo l’impegno alla diminuzione dell’uso del carbone per la produzione di energia negli impianti non in grado di abbattere gli inquinanti. Il problema, non affrontato per l’approccio egoistico generale, è tutto chiuso nella possibilità da parte dei Paesi in via di sviluppo di poter accedere alla loro parte di sviluppo, senza compromettere la loro crescita in nome del contenimento dei cambiamenti climatici. Purtroppo, già oggi si registra un aumento delle temperature medie, rispetto ai livelli preindustriali, di 1,1°C.
I Paesi del Sud del mondo chiedono di poter avere le stesse possibilità di chi le ha precedute, utilizzando la migliore tecnologia grazie all’assistenza dei paesi sviluppati. Dovremo attendere ancora per avere un impegno reale per l’uscita dall’uso del carbone.