Un Nobel controverso

L’assegnazione del prestigioso premio al padre della fecondazione in vitro pone degli interrogativi su una tecnica ormai di routine che interroga sul concetto di diritto e di dono della vita.    
I figli dell'immortalità

È di ieri la notizia dell’assegnazione del Nobel per la medicina a Robert Edwards, “padre”, insieme a Patrick Steptoe, deceduto nel 1988, della fecondazione in vitro. Louise Joy Brown fu, nel 1978, il primo «bebè in provetta». Ora la tecnica è diventata una pratica di routine. Il prestigioso riconoscimento è stato motivato dallo «sviluppo del trattamento della fecondazione umana in vitro. Le sue scoperte hanno reso possibile il trattamento della sterilità che colpisce un’ampia porzione dell’umanità e più del 10 per cento delle coppie nel mondo».

 

Immancabile la reazione da parte del nuovo presidente della Pontificia Accademia della Vita, mons. Ignacio Carrasco, che esprime giustamente alcune riflessioni: la FIVET è la causa del «mercato degli ovociti», degli embrioni abbandonati che «finiranno per morire» ed anche dello «stato confusionale sulla procreazione assistita» con «figli nati da nonne o mamme in affitto» . Rilievi certamente non di contorno, accettabili anche da chi non professa una fede religiosa, eppure c’è forse qualcosa di più radicale mettere in luce, per avere almeno una base di lettura e di approfondimento comune a credenti e non che attinga alle radici stesse dell’essere umano.

 

Di fronte al “diritto” conclamato, da parte di una qualsiasi coppia, ad “avere un figlio”, anche il “diritto” dell’embrione ad esistere e non essere trattato strumentalmente può perdere di quella evidenza umana che dà precedenza ad un diritto rispetto ad un altro. Anche il rischio reale di creare stati psicologici problematici può essere controbattuto con l’affermata volontà di offrire al futuro essere umano tutte le attenzioni del caso.

 

Il cuore del problema sta, a mio avviso, proprio nell’esistenza o no di quel “diritto” della coppia. Affermare il diritto ad “avere un figlio” significa, in definitiva, affermare il diritto di qualche persona su un’altra. I diritti personali sono diritti a poter accedere a tutte quelle realtà e a quei sostegni che mi consentono di realizzarmi come “persona”, in un rapporto unico e inalienabile con gli altri: sono diritti, in definitiva, a “cose”, materiali o spirituali quali il nutrirsi, l’educazione, la cultura, il lavoro, la cura della salute.  Proprio perché l’altro entra in rapporto con me come realtà distinta e singolare non può mai diventare oggetto di diritto da parte mia; tutt’al più si realizza l’attenzione e il rispetto reciproco ai diritti che portiamo inscindibilmente legati al nostro essere persone.

 

Il meccanismo stesso che sta alla base della fecondazione in vitro viene in soccorso di questa visione delle cose. Il “prodotto” che ne scaturisce, cioè il bambino, è frutto di passaggi tecnici (stimolazione ovarica, espianto, estrazione del seme maschile, immissione in vitro e rimescolamento dei gameti, reimpianto) e, come tale, soggetto alle leggi della tecnica, che sono fondamentalmente leggi di riuscita. La fecondazione umana, invece, porta in sé una legge che è esattamente l’opposto del calcolo e della certezza del risultato: è l’imponderabilità dell’amore, che certamente spera, attende, si augura, ma anzitutto accoglie una realtà che non è mai catalogabile nelle proprie categorie di pensiero e tanto meno di possesso. E questo a partire dal gesto stesso che unisce le persone generanti, che si donano e non si strumentalizzano vicendevolmente. In questa luce, l’embrione non è un “prodotto” tecnico, ma il “frutto” di un atto gratuito e aperto.

 

Si obietta che all’origine della scelta c’è una volontà di amore. Questo è vero, ed è per questo che la divaricazione tra l’intenzione di bene e la via per realizzarla non è così immediatamente evidente e appare, quindi, decisamente scavalcabile. Ma se non si risponde alla domanda di fondo sull’esistenza o meno del “diritto” di una persona sull’altra, la conclusione ovvia è che ciò che è “tecnicamente” possibile possa coincidere con l’ “eticamente” possibile.

 

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