Trasporti pubblici: dov’è la democrazia?

Aziende in crisi e privatizzazioni. Manca un vero dibattito sulla gestione dei beni comuni. Un intervento di Luigino Bruni fuori dal coro
Bus Genova

La ricetta la conosce bene Nigel Lawson, intervistato dal Corriere della sera il 14 novembre. In Italia bisogna privatizzare e liberalizzare per uscire dal declino economico permanente, così come ha fatto il governo Thatcher, in Gran Bretagna, nel 1979. Lawson, da ex ministro di quel governo che ha segnato la storia dell’Occidente, continua ad affermare, a 81 anni suonati, che «non è il governo a creare la crescita, ma le imprese e gli individui» e quindi bisogna «frenare il potere di veto dei sindacati, abbassare le tasse, liberare l’economia dagli eccessi di regole e di burocrazia».

La pensano in maniera diversa i tranvieri genovesi, radunati nella sala dove tuttora campeggia, sullo sfondo, il ritratto di Lenin, che hanno bloccato la città per circa cinque giorni per contrastare ogni ipotesi di cessione ai privati della loro azienda. Sono convinti che privatizzare e liberalizzare vuol dire, di fatto, licenziare le persone e tagliare le linee di trasporto pubblico non convenienti per un gestore orientato alla regola del profitto. Alla fine, in mezzo a contrasti non sopiti tra i lavoratori, l’accordo intervenuto con il Comune e la Regione mette in gioco la necessità di recuperare nuove risorse finanziarie proprio quando queste sono sempre più incerte. 

 Al tavolo nazionale sul trasporto locale convocato a Roma per il 28 novembre emergeranno le tante contraddizioni di un Paese dove oltre il 40 per cento delle aziende del settore «sono tecnicamente fallite, morte» come ha dichiarato apertamente il sottosegretario ai Trasporti Erasmo D’Angelis con evidente riferimento al caso romano dell’Atac, che è indebitata per 1,2 miliardi di euro nonostante il recente aumento del 50 per cento del prezzo del biglietto. 

In un tale scenario, che rimanda alla crisi della vicina Grecia, è importante cogliere un segnale dal mondo del pensiero dell’economia civile e di comunione che non si ferma ai concetti generali, ma prende posizione come ha fatto prontamente Luigino Bruni con un editoriale pubblicato sul quotidiano Avvenire del 23 novembre. Per Bruni, quando si tratta di beni pubblici come i trasporti, occorre riprendere l'origine storica e teorica delle imprese municipalizzate e rifuggire da «un’imperante, subdola, non dichiarata ideologia del capitalismo individualista e finanziario» che propone la privatizzazione come sinonimo di efficienza contro un pubblico definito come inefficiente e clientelare, quando tante vicende delle grandi imprese private ci raccontano una storia del tutto diversa. Per questi motivi, secondo l’economista della Lumsa, «non dobbiamo pensare che la soluzione unica, o migliore, sia appaltare al mercato capitalistico i nostri tanti beni comuni. Dobbiamo invece lavorare, e a tutti i livelli, per far nascere nuove forme di imprese civili, che possano garantire l’efficienza nella gestione (e quindi la presenza anche di imprenditori), ma che abbiano scopi più grandi del profitto».

Una posizione già resa esplicita da Bruni al tempo del referendum sull'acqua con l’indicazione di una gestione pubblica intesa non come un comitato d’affari dei partiti, ma come la partecipazione popolare all'amministrazione di un bene comune per eccellenza.

Alla radice, quindi, si pone una questione di carenza di democrazia economica perché oggi in Italia (con la delega agli «uffici dei commissari della spending review!»), è negata la discussione pubblica su «quali ambiti vogliamo far regolare dal mercato for-profit e quali vogliamo invece lasciare al “municipio”, e ai suoi cittadini».

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