Sulle tracce di monsignor Romero

Il Salvador attraversa un periodo di fortissima insicurezza. Ma la figura di monsignor Romero invita alla speranza. A colloquio con monsignor Rosa Chávez
Tomba Romero

La cattedrale di San Salvador, quella in cui anche il presidente Obama ha voluto trattenersi in preghiera in ricordo di monsignor Romero, qui sepolto, da 84 giorni è chiusa al pubblico. Un gruppo di reduci della guerra di liberazione, o guerra civile, la occupano infatti per protestare contro il governo per promesse fatte e non mantenute, secondo loro almeno. Sulle ringhiere della cattedrale sono affissi degli striscioni bianchi con scritte rosse da cui riesco a capire che chiedono al presidente Don Mauricio Funes Cartagena di dar loro quei benefici di legge, in quanto non hanno né mezzi di sussistenza né speranza di averne.
 
Sono riuniti nel Fmnl, cioè la sigla del coordinamento dei guerrillero nella guerra civile finita nel 1991, e poi trasformatosi in partito politico, ma non ne sono che una frangia che s’oppone alla direzione del partito. Situazione confusa, quindi. Nonostante i miei due giovani amici siano perplessi e temano situazioni incresciose, bussiamo al cancello. Ci apre un combattente nostalgico: bandana nera, pantaloni militari e canottiera nera con scritte anti-imperialiste, una borsa a tracolla che pare sostituire il fucile che non ha. Con lui un’altra decina di personaggi. Denunciano le aggressioni subite, il tentativo di sloggiarli con il gas. Ci fanno accomodare sotto un tendone, mentre aspettiamo l’arrivo della chiave della cripta, che non si sa dove sia né quando possa essere fatta recapitare por nosotros. Conversiamo con tranquillità, dinanzi alle inferriate del recinto della cattedrale, che in realtà vedono aggrapparsi una fila di mendicanti da far paura, di tutte le età e di tutte le etnie. Fanno impressione, non c’è che dire.
 
Finalmente arriva la chiave, e così scendiamo nella cripta vuota. I passi rimbombano, ricordo vagamente qualche foto del luogo. I nostri accompagnatori ci rassicurano: non ci sarà fatto nulla di male, perché, come abbiamo spiegato, siamo giornalisti per un mass media che lavora per la giustizia e la pace. Buio pesto. Poi accendono qualche fioca luce. La tomba in marmo scuro sta dinanzi al mosaico di monsignor Romero, in una cripta che, sulle colonne, porta le raffigurazioni di tutti gli arcivescovi di San Salvador. La tomba è ricoperta di fiori e messaggi, ormai abbastanza invecchiati. C’è odore di marciume. Ma l’impatto è forte. L’idea del martirio rimbalza ovunque. Mi fermo a fotografare mentre gli ex-guerrillero controllano la situazione a debita distanza, con rispetto.
 
Monsignor Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Salvador, è una personalità molto conosciuta e apprezzata in Salvador, non solo in campo ecclesiale, ma anche civile e politico. Un degno erede di monsignor Romero, insomma. Lo incontro nella sua modesta residenza, attigua alla parrocchia di San Francisco, che dà su quell’avenida Juan Pablo II che fu così nominata mentre ancora era vivo il papa polacco: aveva talmente fatto presa sui salvadoregni, che questi vollero ricompensarlo con un gesto civile di rilievo. L’intervista ha luogo in un patio rumoroso – tutta la città sembra esser presente –, ma finalmente ventilato, dopo una giornata dal calore torrido. Dinanzi a noi un mango di cinquant’anni domina la scena. Sediamo in un salottino realizzato con tondini di ferro per cemento, mentre un piccolo busto del martire più famoso del Centroamerica ci guarda attento.
 
Non possiamo non cominciare dalla sua eredità: «La Chiesa aveva chiesto tre cose – mi spiega monsignor Rosa Chávez –: che fosse chiesto perdono al Paese per l’assassinio di monsignor Romero, e così alla Chiesa e alla sua famiglia; che si innalzasse un memoriale in suo onore; che si investigasse sulle modalità e le responsabilità dell’assassinio. Se il primo punto è stato ottemperato e se ormai sono pronti i piani esecutivi per il secondo punto, per il terzo siamo ancora agli inizi, anche se il presidente attuale afferma di voler andare a fondo nella revisione della storia militare del Paese».
 
E sul fronte ecclesiale? «Sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI hanno parlato di monsignor Romero in modo estremamente positivo, è stato avviato il processo per la sua beatificazione, che però non si sa quando arriverà a compimento. Certamente, però, un influsso negativo sul processo è stato dato dall’appropriazione della figura e dell’eredità morale di monsignor Romero». Ciò è avvenuto da parte di certe parti politiche soprattutto di sinistra in modo totalmente ingiustificato; se per reazione tanta gente di destra non si riconosce in monsignor Romero, è pur vero che la stragrande maggioranza del Paese vorrebbe la sua beatificazione.
 
Inutile dire che il discorso arriva alla grave situazione di violenza che attraversa il Paese: nello scorso novembre, l’Onu ha additato Honduras e Salvador tra le nazioni più insicure al mondo. Ma qui la speranza non manca: «Innanzitutto – mi spiega monsignor Rosa Chávez –, si sta riscontrando un calo degli assassini quotidiani dell’ordine del 60 per cento: da 17 a 5 al giorno. Ciò certamente è dovuto alla tregua in atto tra le maras, cioè le maggiori gang del Paese – tregua ambigua, tuttavia –, ma anche per un reale tentativo di una maggior presenza di polizia nel Paese. La Chiesa partecipa attivamente, in collaborazione con le istituzioni, a questa grande azione per la sicurezza, che è stata avviata con una commissione civile ad hoc istituita (gente di Chiesa, accademici, giornalisti, sindaci, rappresentanti di Ong…), che ha cercato di fotografare la situazione, di individuarne le cause, di trovare le vie di soluzione e anche di evidenziare i punti di disaccordo. I risultati di questa commissione e del loro rapporto coincidono singolarmente con la volontà e le prospettive proposte dalla Chiesa cattolica».
 
Anche così Romero rivivrà, visto che la condivisione sembra la via scelta dalla maggioranza del Paese per trovare soluzione ai problemi di sicurezza. «Bisognerà agire sulla famiglia e sull’educazione, soprattutto, ma anche sulla gestione delle forze di polizia e sulla nuova inserzione nella società dei circa 60 mila giovani che fanno parte di gang o di bande criminali», conclude monsignor Rosa Chávez.
 

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