Silenzio sul Sudan

La difficile situazione dello stato africano raccontata a Roma da padre Kizito, missionario comboniano. L'indipendenza del Sud non ha fermato i conflitti e le aggressioni ai campi profughi
Sudan campi profughi
Sussurri e grida è il titolo di un famoso film di Bergman. “Silenzi e grida” potrebbe essere la definizione del comportamento dei mass media di fronte ad alcuni avvenimenti internazionali: emblematico il caso della situazione in Sudan.

Sei mesi fa il Paese si è diviso in due stati con la nascita, il 9 luglio 2011, della Repubblica del Sudan del Sud, a seguito del referendum plebiscitario del gennaio dello stesso anno, in cui la popolazione del sud ha scelto l’indipendenza. Giorni in cui i riflettori internazionali erano puntati su questa regione del globo, per poi spegnersi subito dopo.

 

Ma prima di arrivare a questo punto, fra il nord e il sud si sono combattute due guerre (la seconda durata più di vent’anni) col risultato di due milioni e mezzo di morti, cinque milioni di abitanti fuggiti all’estero e lo spostamento verso l’interno di grandi masse della popolazione. Un Accordo globale di pace nel 2005 ha posto fine al conflitto e avviato il processo di indipendenza del sud. Ma molti problemi sono rimasti sospesi e la minaccia della ripresa della guerra non è totalmente scongiurata.

 

Padre Renato Kizito Sesana, comboniano, giornalista e operatore sociale in Zambia e Kenya, ha partecipato, a Roma, ad una serata di riflessione sul futuro dei sudanesi, dopo la nascita di questo 54° stato africano. La conoscenza diretta del Sudan per motivi giornalistici e umanitari, lo porta a sostenere che l’indipendenza del sud Sudan segna un passo in avanti: il Paese in questo modo è diventato padrone del proprio destino, salvaguardando la propria identità, caratterizzata da differenze fondamentali rispetto al nord sul piano culturale, sociale e religioso (mussulmano il nord, animista e cristiano il sud). In tutti i suoi incontri con questa popolazione attesta di non aver trovato nessuno favorevole all’unione col Nord.

 

A livello internazionale, però, il quadro non è così roseo: tutti sono concordi nel dire che il fatto dell’indipendenza è positivo, ma manca una solidarietà concreta.Preoccupano alcuni fattori negativi in questo quadro. La Repubblica del Sudan del sud – nata dopo un lungo periodo di guerra civile –, è devastata sul piano economico e scarseggia di risorse umane: molti suoi figli con un livello alto di educazione sono all’estero e sono esitanti a rientrare in questo momento di grande incertezza. La conseguenza è che la neonata nazione scarseggia di risorse umane  per la sua costruzione in termini politici e civili.

 

Inoltre la guerra ha lasciato una mentalità di violenza fra la popolazione che fatica ad adattarsi alle regole di uno stato democratico. Un esempio è l’estrema difficoltà dei giornalisti di poter raccontare liberamente quanto la neonata nazione vive. Quindi «non basta la dichiarazione dell’indipendenza; occorre cambiare la mentalità» ha affermato padre Kizito. A questo sono da aggiungere gli scontri di carattere etnico, tornati nuovamente alla ribalta. Conflitti tradizionali tra le tribù africane sono stati sfruttati nell’organizzazione della guerriglia indipendentista, ma ora rischiano di essere potenziati dall’uso di armi più sofisticate.

 

Altro punto critico, evidenziato dal religioso è l’Accordo di pace che ha lasciato indefiniti i confini a causa della presenza nel Sud del 75 per cento dei pozzi di petrolio, mentre la raffinazione del prodotto, e quindi tutta la realtà industriale collegata, ha sede nel nord. È questo un elemento di massima instabilità, che può riaccendere da un momento all’altro i fuochi della guerra.

 

A livello umanitario il caso più acuto è attualmente la situazione dei Nuba, una popolazione situata sul confine (Monti Nuba e Kordofan Meridionale), dentro il territorio destinato al nord, ma che ideolgicamente è schierata con il sud, avendo militato nelle fila della guerriglia di indipendenza. Chiedono un’autonomia loro negata dal governo di Khartoum, che ha condotto in passato una politica di genocidio nei loro confronti, interrotta momentaneamente con l’Accordo di pace (che però non ha voluto affrontare il destino di questo popolo). Ma negli ultimi tempi la repressione è ripresa e la gente fugge, abbandonando i campi coltivati, col serio rischio di morire di fame e di innescare una nuova carestia. 

 

Il 10 novembre un aereo militare del governo del Nord ha bombardato un campo profughi Nuba, che raccoglie più di 20 mila persone, situato nel territorio del Sud Sudan, provocando almeno dodici morti col pericolo di una nuova guerra civile. Di tutto ciò i media del mondo tacciono. Padre Kizito, in nome di queste popolazioni e di quanti (con  voce flebile) operano in loro favore, chiede che non siano lasciati soli e che la comunità internazionale invii, sì aiuti, ma soprattutto non li dimentichi. Il nord Sudan non lo vuole e per questo impedisce ai giornalisti di entrare in questi territori. È necessaria una pressione internazionale, perché non si precipiti di nuovo nella guerra, ma si arrivi ad un tavolo dei negoziati. 

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