Ridere con Falstaff

Il Teatro dell'Opera di Roma apre la stagione con l'ultima opera verdiana
teatro opera roma

Anno 1893, il compositore è ottantenne. Cosa non è stato detto e scritto su Falstaff, personaggio shakesperiano a tutto tondo che Verdi, grazie al libretto fin troppo lambiccato – ma scenicamente perfetto – di Boito, ha descritto con sapida arguzia. Bisognerebbe risentirlo nell’edizione diretta da Toscanini o da Muti, interpreti verdiani di razza, per coglierne pienamente il senso vero.

 

È opera comica questa commedia in cui si inganna e si beffa il vecchio cavaliere sir John Falstaff, instancabile donnaiolo e bevitore? O non è un dramma vero e proprio, seppur nascosto abilmente da un ritmo vorticoso, una musica elettrizzante ed un declamato cantabile che apre le porte a Puccini e compagni?

 

Certo, i momenti allegri o se si vuole buffi non mancano. Ma Verdi non è Rossini. Sotto una serenità che sembra inscalfibile, contempla la vita dall’alto di un posizione “spirituale” di disincanto; ma la nostalgia per la giovinezza gli scappa spesso di mano, anche se ferreamente controllata: i due innamorati Fenton e Nannetta gli fanno uscire gli ariosi più puliti e lirici e sono loro, in sordina, a chiudere l’opera con il loro matrimonio. È come affermare che la vita va avanti, continua ed è l’amore «che non ci dà mai tregua», come sospira Falstaff, a dire l’ultima parola.

 

Certamente, Verdi conclude con il celebre “insieme”: «Tutto nel mondo è burla», che evoca le “strette” rossiniane, ma con un altro spirito. La gioia di Verdi che si illumina quando cantano i due giovani, qui è un frutto di volontà razionalistica, una gioia “mentale”, un disincanto in fondo amaro di chi sa di esser giunto al capolinea.

 

Falstaff perciò si potrebbe definire, più che una commedia tout court, una “commedia drammatica”, perché il risvolto buffo delle situazioni ha sempre una venatura amara. A Verdi spiace che la vita passi e non riesce a nasconderlo. Lo stesso scintillio della partitura e gli echi continui di sé stesso o mozartiani – il Mozart amarognolo delle Nozze e del Così fan tutte – non lo nascondono. Sono citazioni di chi rievoca la propria stessa vicenda personale ed artistica con una punta di scetticismo, perché “dopo”, non si sa se c’è qualcosa.

 

Interpretare una commedia simile diventa quindi difficile e si esige un cast di notevole abilità scenica e vocale. A Roma, l’allestimento ormai noto di Franco Zeffirelli rimane suggestivo, in particolare nel bellissimo terzo atto, così incantato, favolistico, adatto alla situazione. Nel cast brillano i ruoli femminili, mentre in quelli maschili è giusto citare il protagonista, il baritono Juan Pons. Voce ancora potente, ricca di sfumature – Falstaff è zeppa di sfumature psicologiche e musicali -, abilità recitativa, anche se gli anni si sentono.

 

La direzione dell’israeliano Asdher Fisch è corretta, precisa negli attacchi, convinta e l’orchestra romana suona benissimo (gli ottoni non “scrocchiano” mai). Forse Fisch, abituato a Wagner, “wagnerizza” un poco il tessuto sonoro, che dovrebbe essere sempre ricco di colore, leggero, e non, come in qualche momento succede, troppo pieno e grave. Ma, a parte questi difetti lievi, il direttore sa quello che vuole, e lo ottiene. Edizione dunque soddisfacente, questa romana e godibilissima. Da non perdere.

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