Reddito di cittadinanza, povertà e politiche per il lavoro

Povertà, politiche attive del lavoro e contrasto delle diseguaglianze nell’intervista integrale con l’economista Michele Raitano, esponente della scuola di pensiero promossa da Federico Caffè. Raitano, professore associato di Politica economica nel dipartimento di economia e diritto dell’università La Sapienza di Roma, è, tra l’altro, consulente scientifico dell’Alleanza contro la povertà
Povetà e lavoro Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse

Il contrasto alla povertà è una sfida sempre aperta e difficile da raggiungere, nonostante le migliori intenzioni dei governi. Ha fatto sorridere o indispettire, nel 2018, l’esultanza dei ministri 5 stelle sul terrazzo di Palazzo Chigi raggianti per aver raggiunto l’obiettivo di aver “abolito la povertà” grazie all’introduzione del Reddito di cittadinanza (RdC).  È, poi, arrivato il Covid 19 a mietere vittime, con l’Istat a certificare l’aumento della percentuale di residenti nel nostro Paese in condizioni di povertà assoluta, passati dal 7,7% del 2019 al 9,4% del 2020: oltre 5 milioni e seicentomila persone.

Senza il Rdc il bilancio sarebbe stato più gravoso, ma il superamento delle diseguaglianze ha bisogno di una visione adeguata alla complessità di tale pretesa. Come quella di Federico Caffè (1914-1987), economista quanto mai citato durante la pandemia che ha rimesso al centro l’importanza di un pensiero alternativo a quello dominate finora per uscire da una crisi di sistema. Abbiamo perciò intervistato, a luglio 2021, Michele Raitano, professore associato di Politica Economica nella facoltà di Economia della Sapienza dove Caffè ha insegnato dando vita ad una feconda scuola di pensiero espressa da molti docenti ormai in pensione. Raitano, considerando l’età, rappresenta, con la sua produzione scientifica, la seconda generazione di quella singolare comunità.

Come valutare il Reddito di cittadinanza (RdC) introdotto in Italia?
È una misura che va considerata ormai stabile e necessaria ma che, per come è stata costruita, presenta dei problemi che vanno superati nel senso di una maggiore equità. Ad esempio andrebbero eliminati i vincoli di accesso vessatori imposti agli immigrati, vanno riviste le scale di equivalenza che penalizzano i nuclei familiari numerosi. Esistono, poi, dettagli apparentemente tecnici ma non banali come i requisiti patrimoniali: ad esempio attualmente chi non lavora ma possiede un patrimonio mobiliare di poco superiore a 6 mila euro non ha diritto al reddito di cittadinanza.

Come si spiegano queste anomalie?
Con la necessità, al momento dell’adozione del RdC, di coprire il maggior numero possibile di soggetti non distaccandosi troppo dalla promessa di “780 euro” per i beneficiari pur di fronte alla carenza di fondi a bilancio. C’era la necessità di arrivare a mostrare un risultato visibile di fronte al fenomeno della povertà in crescita.

E come valuta l’introduzione, ora, dell’Assegno unico universale per i figli?
È una misura che ha il pregio di andare nella direzione giusta della riduzione delle diseguaglianze e di essere universale, cioè per tutti, non solo per alcune categorie lavorative. Il reale impatto lo vedremo con la sua configurazione definitiva a partire dal 2022, da considerare assieme al Reddito di cittadinanza (per evitare la beffa che per i più bisognosi l’Assegno unico si accompagni a una riduzione del RdC) e alla annunciata riforma fiscale. Introdurre l’assegno unico per tutti, dovrebbe portare ad esempio anche ad eliminare le forme di fiscalità di vantaggio previste, finora, sono per alcuni. Non possiamo correre il rischio di una riforma fiscale frammentata senza una visione condivisa tra tecnici e politici. In Italia abbiamo il grande problema di una forte progressività della tassazione dei redditi medio bassi con aliquote che sbalzano dal 28% al 38% e di un’erosione continua dalla base imponibile dell’IRPEF – tramite deduzioni e fiscalità separata – che generalmente favorisce i più abbienti.

E sul fronte delle politiche attive? Ora l’Anpal è stato commissariato. Perderanno il lavoro anche i navigator assunti per trovare un occupazione a coloro che percepiscono il RdC?
Bisogna distinguere il RdC come strumento di contrasto alla povertà dalle politiche attive intese all’inclusione sociale. Come insegnano i teorici della politica economica, ogni obiettivo deve avere uno strumento autonomo. Non si può quindi pensare che l’RdC, da solo, serva per contrastare la povertà, incentivare il lavoro e favorire l’incrocio fra domanda e offerta di lavoro. I navigator possono essere integrati nel quadro del potenziamento del servizio pubblico per l’impiego, senza mantenere canali distinti tra percettori di RdC e tutti gli altri.

Cosa ne pensa della tesi diffusa che vede il RdC come un disincentivo a cercare davvero lavoro?
Sono affermazioni che non tengono conto della realtà. Il RdC, nel migliore dei casi, per un singolo è pari a 500 euro (più, eventualmente, fino a 280 euro per il sostegno agli affitti) e proporzionalmente sempre di meno per i componenti di una famiglia.  Le polemiche puntano ad eludere il vero problema costituito da un mercato del lavoro inadeguato, dove permangono aree di lavoro nero e irregolare e salari in molti casi inaccettabilmente bassi.

Come si può colpire il fenomeno di chi resta povero anche se lavora?
Il “lavoro povero” nasce dalla correlazione di tre fattori di svantaggio. Innanzitutto esistono bassissime paghe orarie che vanno, quindi, innalzate con l’introduzione di un salario minimo che – al di là del ruolo meritorio della contrattazione collettiva, che va anzi rafforzata – deve valere per tutti e sotto il quale non si può scendere.  C’è, poi, il fenomeno molto diffuso del part time involontario, con eventuali ore lavorate in più non retribuite regolarmente e comunque in nero. Infine, si registra una estrema frammentarietà di periodi lavorativi non continuativi. Un quadro aggravato dalla pandemia perché la cassa integrazione, l’indennità di disoccupazione di dipendenti (NASpI) e collaboratori (Dis-Coll) sono proporzionate alla retribuzione formalmente dichiarata. Un salario giusto è una garanzia anche per le prestazioni del welfare in caso di eventi imprevisti.

Sono stato chiamato a far parte della commissione di iniziativa governativa sorta recentemente e presieduta dall’economista dell’Ocse Andrea Garnero, proprio per cercare di rispondere a questi problemi. L’introduzione di un salario minimo, come detto, è un tipo di intervento possibile anche se non riguarda le categorie più forti dei lavoratori che hanno già una retribuzione base decente. Bisogna, tuttavia, intervenire sulle regole della contrattazione collettiva e aziendale perché in Italia esistono numerosi “contratti pirata”, sottoscritti da sindacati di comodo e non rappresentativi, che prevedono retribuzioni inferiori anche del 40% per la stessa mansione. Più difficile si presenta l’intervento, ad ogni modo necessario, sui tempi di lavoro, dato che il part time, praticamente inesistente nel 1985, riguarda oggi, nel nostro Paese, il 30% dei dipendenti, con il picco del 50% tra le lavoratrici. Dati evidenti di una scelta non volontaria o non rispondente alla verità delle ore lavorate.

Ma queste anomalie non sono presenti in particolare in attività che anche la pubblica amministrazione ha esternalizzato a società private per abbassare i costi?
È così. Il pubblico è stato uno dei promotori del lavoro povero. Basta entrare in un ospedale per rendersi conto che il bravo infermiere in organico non dipende dalla struttura dove lavora ma da società esterne (spesso cooperative) che lo pagano molto di meno di un dipendente pubblico e in base a contratti che solo per alcuni mantengono le tutele del lavoro dipendente. Ci vuole una svolta verso una equità orizzontale: devo trattare allo stesso modo chi svolge le medesime mansioni.

Se questa forma di segregazione interna ai luoghi di lavoro produce una rottura profonda del legame sociale, cosa dobbiamo attenderci dallo sblocco progressivo dei licenziamenti? Secondo alcuni analisti non inciderà più di tanto…
Teniamo presente che il tessuto produttivo italiano è composto prevalentemente da piccole e medie imprese, soggette ad una vita media molto breve. Facendo uno studio sui dati Inps ho scoperto che, in 15 anni, nella manifattura ne resta in piedi solo un terzo. Questo tipo di licenziamenti per chiusura attività non hanno subito alcun blocco per il Covid. In aggiunta, proprio i lavoratori più fragili, come quelli con contratti a termine, sono stati i primi ad essere stati espulsi dal mercato.

A questo regime di apartheid non si può rispondere, come chiedono alcuni, peggiorando le condizioni per tutti, ma facendo l’esatto contrario. Far passare l’idea che bisogna pagare poco il lavoro diventa un incentivo a disfarsi dei dipendenti non qualificati ai primi accenni di crisi.

Non servono a questo i 12 miliardi di euro stanziati nel Pnrr per le politiche attive?
È questa la sfida vera che ci attende, non limitandoci, come finora è stato fatto, a prevedere solo sgravi contributivi e fiscali a favore delle imprese che assumono. Dovremmo avere, invece, un’idea di dove e come vuole muoversi il sistema produttivo italiano per investire in quella direzione e far incontrare domanda e offerta di lavoro di qualità. Le politiche attive del lavoro sono un concetto astratto senza una chiara visione delle scelte di politica industriale di lungo termine.

Che ruolo deve avere lo Stato in questa fase?
Di certo non minimale. Ha un ruolo regolatore e indirizzatore. Il mercato si muove secondo logiche di breve periodo, dettate dalla massimizzazione dei profitti riducendo i costi, mentre lo Stato ha il vantaggio di poter puntare sull’efficienza dinamica di lungo periodo.

 

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