Recuperare la dignità

Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, la violenza in famiglia ha per vittime soprattutto donne. L'esperienza dell'Argentina, dove la Corte suprema ha istituito un ufficio ad hoc
violenza donne

Il 10 febbraio 2010, Wanda Tadei iniziò un cammino che l’avrebbe resa tristemente famosa. La donna, ventottenne, si era presentata al pronto soccorso con gravi ustioni. I sospetti erano ricaduti sul coniuge, Eduardo Vàzquez, batterista del gruppo rock Callejeros, che – ironia della sorte – nel dicembre 2004 era rimasto coinvolto nell’incendio di una discoteca. Wanda passò undici giorni di agonia, e dopo la sua morte vennero alla luce altri dettagli sulla triste situazione familiare. Su tutto la minaccia di impunità, finché una perizia non provò che la donna non si era ustionata da sola mentre lucidava dei cd con l’alcol e Vàzquez venne arrestato, in attesa di giudizio.

 

Questo è solo uno dei 262 casi di donne morte lo scorso anno per la cosiddetta “violenza di genere”, un dramma che può essere risolto solo se trova visibilità. Un obiettivo che ha messo insieme diverse Ong, che lavorano per i diritti delle donne: «Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, in Argentina ogni 36 ore una donna muore per mano del coniuge o compagno attuale o passato. E a queste si aggiungono le migliaia di donne che ogni giorno rimangono più o meno gravemente ferite» affermano.

 

La “Casa dell’incontro” è una delle realtà impegnate in questo senso. Nata nel 2003, con l’obiettivo di creare uno spazio di scambio sociale e culturale, oggi è uno degli enti più attivi sul fronte della lotta alla violenza di genere e alla prostituzione: «due facce della stessa medaglia», secondo la coordinatrice generale, Fabiana Tunez. Dal 2006 l’organizzazione pubblica un rapporto annuale sugli omicidi di donne basato sui casi riferiti da venti media nazionali, non essendoci statistiche ufficiali. Il termine spagnolo scelto per designarli, femicidio, vuole rigettare l’espressione mediatica “crimine passionale”: «In questo modo – spiega la Tunez – si legano la passione e l’amore all’omicidio. Al contrario, con la parola femicidio vogliamo sottolineare che l’assassinio ha origini sociali e culturali: qui l’amore non c’entra proprio nulla».

 

Secondo il quotidiano Clarìn, altre 18 donne sono morte dopo Wanda in circostanze simili: “finirai come Wanda” è diventata una forma comune di minaccia, riferiscono gli specialisti che trattano questi casi nei centri come l’Ufficio per la violenza domestica della Corte suprema. Inaugurato nel 2008, è considerato uno dei maggiori passi avanti compiuti in questo campo. È aperto 24 ore al giorno tutti i giorni, e ad accogliere le vittime c’è una squadra composta da un avvocato, una psicologa e un’assistente sociale, oltre ad un servizio medico. Ha trattato finora oltre 17 mila casi, e l’80 per cento di questi riguardano donne. Del rimanente 20 per cento, quasi l’80 sono bambini. L’avvocato Amalia Monferrer, responsabile dell’ufficio, sottolinea come come il loro lavoro stia contribuendo a cambiare l’intero paradigma del sistema giudiziario: «Nel primo anno, l’89 per cento delle cause arrivate in tribunale sono state archiviate immediatamente. Nel secondo, la percentuale è scesa al 66 per cento. Allo stesso tempo c’è un incremento nelle indagini, si cercano prove, vengono attivati programmi di protezione per le vittime: tutte cose che prima non succedevano spesso».

 

Il numero di denunce all’ufficio è in crescita: significa che la violenza è in aumento, o che viene più facilmente denunciata? «Entrambe le cose – risponde la Tunez – : ci sono più casi, ma il fenomeno sta acquistando sempre una maggiore visibilità, il che aiuta le donne a trovare una via d’uscita. Il primo fattore chiave per frenare questa ascesa è il libero accesso alla giustizia per tutte le donne, di ogni classe sociale». Inoltre, prosegue, il cambiamento deve avvenire anche sul fronte sociale ed educativo, includendo la violenza di genere nei curricula scolastici. Anche le pene dovrebbero essere inasprite: di solito i colpevoli vengono condannati a non più di 10 anni, e dei 262 casi denunciati nel 2010 solo il 20 per cento è arrivato in tribunale. «Quando inizieremo a cambiare, inizieremo a costruire anche un modo diverso di essere uomo e di essere donna, in una società libera da discriminazioni. Però non bisogna dimenticare che le vittime sono vittime adesso» sottolinea.

 

                                                                                                                                                                        (trad. di Chiara Andreola)

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