Nicaragua: quando la democrazia è un sogno

Una storia nazionale di regimi dittatoriali che hanno trasformato la res pubblica in un bene privato. Dal clan Somoza al clan Ortega, i resti di una rivoluzione negata.
Daniel Ortega (AP Photo/Alfredo Zuniga, File)

«Io presidente del Nicaragua? Il Nicaragua è mio!». Lo diceva Anastasio “Tacho” Somoza, presidente e uomo di potere di questo piccolo Paese centroamericano, tra il 1937 ed il 1956. Era convinto di possedere «una sola azienda e questa si chiama Nicaragua». A conferma di tale convinzione, aveva seminato parenti nell’apparato pubblico. Fu lui, dietro ordini dell’ambasciata statunitense, a far assassinare il generale Sandino, eroe nazionale della resistenza contro l’occupazione Usa avvenuta tra il 1912 ed il 1933. Manco a dirlo, i marines furono mandati per ragioni nobili e democratiche.

Roosevelt ammetteva che Somoza era un corrotto, anzi un «figlio di buona donna, ma è il “nostro” figlio di buona donna». La famiglia Somoza continuò nel potere a lungo: al padre successe il figlio Luis in quanto presidente del Parlamento, e più tardi un altro figlio, pure di nome Anastasio “Tachito”, che durò fino alla rivoluzione sandinista del 1979.

Anastasio “Tacho” Somoza (Foto: AP)

Uno dei leaders di quella rivoluzione che voleva installare una democrazia, che in queste terre non ha mai avuto vita facile, era l’attuale presidente Daniel Ortega, in carica dal 2007 e disposto a restarvi con un ennesimo mandato, in gioco nelle elezioni del prossimo novembre. Nel frattempo, dello spirito rivoluzionario e democratico non è rimasto altro che i proclami ai quali pochi credono, mentre lo stato è nuovamente nelle mani di un clan famigliare, quello degli Ortega: sua moglie, Rosario Murillo, è vicepresidente dal 2017, sette dei loro figli occupano mezzi stampa captati dal governo o incarichi pubblici.

Se vivesse, Shakespeare ambienterebbe a Managua una nuova versione di Macbeth.

Avendo in mano praticamente tutti i poteri dello stato, Ortega sta neutralizzando oppositori e giornalisti critici di un regime nel quale le libertà sono sempre meno tollerate. Tra gli arrestati di queste settimane ci sono vari candidati alla presidenza. È il caso di Cristiana Chamorro, figlia della ex presidente Violeta Barrios (1990-1997) e di Joaquín Chamorro, assassinato da Somoza. Suo cugino, Juan Sebastián Chamorro, pure candidato alla presidenza è stato arrestato l’8 giugno accusato di «possibili illeciti»; Féliz Madariaga, accusato senza prove di terrorismo e narcotraffico. La repressione del regime ha colpito anche vari ex compagni di lotta sandinista, come Arturo Cruz, già ambasciatore a Washington; Dora María Téllez, la «Comandante Due», eroina della rivoluzione, arrestata da ben 60 membri di un commando speciale della polizia (!), l’ex ministro degli esteri Víctor Hugo Tinoco; ed anche Hugo Torres, sandinista della prima ora, che 46 anni fa rischiò la vita per liberare Ortega incarcerato insieme ad altri detenuti politici.

Sono stati arrestati anche attivisti che dal 2018 stanno cercando di provocare un ritorno alla democrazia attraverso organizzazioni come Unidad Nacional Azul y Blanca e Unamos, un movimento di rinnovamento del sandinismo. La repressione delle manifestazioni iniziate tre anni fa, spesso organizzate da studenti, ha collezionato torture, arresti illegali, desaparecidos, migliaia di esiliati e 300 morti.

Protesta antigovernativa risalente al 2019 (AP Photo/Alfredo Zuniga)

Le accuse sono generiche, spesso indizi o presunzioni, grazie ad una legge praticamente ad hoc che consente di imprigionare mentre si investiga su delitti generici, come favorire ingerenze di Paesi stranieri, tradire la patria, attentare contro la società nicaraguense ed i diritti del popolo.

Le reazioni internazionali hanno ottenuto ben poco dal regime. Ortega, come il venezuelano Nicolás Maduro, gioca a guadagnare tempo per poi rinnegare gli impegni presi. Ne sa qualcosa la Chiesa cattolica. Tre anni fa, il governo vide di buon occhio la mediazione dell’episcopato per aprire un dialogo con l’opposizione, per poi accusarla di «golpismo» quando da quel dialogo sorse la proposta di anticipare al 2019 le elezioni di quest’anno.

Nel frattempo, resta viva la sfida di una povertà che affligge il 55,7% dei 6,6 milioni di abitanti, secondo la Cepal, con poche prospettive di miglioramento. E resta viva la sfida della pandemia. Il governo ammette meno di 8 mila casi e 188 morti. La ong Observatorio ciudadano Covid19, parla di quasi 18 mila casi e oltre 3.400 decessi. Nessuna dittatura ama la verità.

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