Mohand si spezza ma non si piega

La voce libera del massimo poeta berbero dell’epoca coloniale

Ed è subito sera, del 1942, è certamente tra le poesie più famose di Salvatore Quasimodo, e più in generale dell’ermetismo. Solo tre intensi versi liberi, nei quali il poeta siciliano ha racchiuso altrettanti aspetti della vita dell’uomo: la solitudine derivata dall’incomunicabilità, l’alternarsi di gioia e dolore, il senso della precarietà della vita. Eccoli: Ognuno sta solo sul cuor della terra, / trafitto da un raggio di sole:/ ed è subito sera.

Quale la mia sorpresa nel trovare l’ultimo verso identico in una poesia di Si Mohand, che trent’anni prima, riferendosi alla colonizzazione francese della sua terra, l’Algeria, aveva denunciato così i nuovi ritmi imposti dalla civiltà europea: Non riesco a tener dietro a questo mondo, / ed è subito sera,/ per quanto corra non riesco a raggiungerlo.

Non mi ci voleva altro per stimolarmi a scoprire la singolare figura di questo che viene considerato il massimo poeta cabilo dell’epoca coloniale: Si Mohand-ou-Mhand Ait Hamadouche, dove il “Si” preposto al nome è titolo di eccellenza raggiunta negli studi religiosi tradizionali.

Egli nasce intorno al 1848 a Icheraiouen, villaggio nel cuore della Grande Cabilia, all’epoca ancora libera. Ragazzo, sperimenta di persona le conseguenze delle occupazioni dei francesi, che dopo aver conquistato tutta l’Algeria, riescono in due riprese, nel 1857 e nel 1871, a sottomettere a prezzo di stragi questa regione montuosa poco distante da Algeri e abitata dai berberi, rimasta roccaforte dell’indipendenza. Anche sulla famiglia Ait Hamadouche, tra le più notabili della Cabilia, si abbatte la tempesta per aver aderito ad un partito ostile ai francesi: dispersa, i suoi beni vengono confiscati e lo stesso Si Mohand rischia di essere giustiziato come il padre.

Per sopravvivere, lui che appartiene all’élite culturale, si adatta a fare i mestieri più umili: a Bona, dove per qualche tempo lavora nella pasticceria di uno zio materno, ma anche ad Algeri, Collo, Ain Rokham, con qualche puntata in Tunisia. Disdegnando la logica arrivista di un mondo tanto diverso dal suo, il giovane sprofonda in una vita da bohémien, dandosi al vino, all’hascisc, al gioco, agli amori mercenari. Come Ovidio del Vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio, anch’egli dirà in una sua poesia: Conosco la retta via, ma la evito. Segnato anche nel fisico dalla povertà e dagli stravizi, incapace di tornare al precedente modo di vivere in un Paese ormai occupato, avrà sempre compagne la sofferenza e la nostalgia per gli antichi valori religiosi e famigliari.

Intorno al 1900 intraprende, a piedi, un viaggio da Algeri a Tunisi; lungo il cammino compone 38 poesie, tante quante sono le sue tappe; facendo una deviazione per andare a trovare il pio marabutto Cheikh Mohand ou-Lhocine, al quale dedica sul momento una poesia nella quale sembra adombrato l’avvento di una nuova generazione che si sostituirà al mondo tradizionale di cui entrambi sono stati testimoni (su questa terra altri verranno). Purtroppo sono due personalità troppo forti e diverse per arrivare a comprendersi.

Qualche anno dopo, il 28 dicembre 1905, Si Mohand muore di tubercolosi nell’ospedale di Michelet. Ha circa 57 anni e lascia un gran numero di componimenti poetici, i cui contenuti riguardano esclusivamente la sua persona: in esse egli descrive l’intera sua esistenza tribolata, confessando anche le più umilianti esperienze con versi molto dolci, sciolti, nitidi. Del resto per lui la poesia era un dono del cielo. Si tramanda infatti che, posto da un angelo davanti all’alternativa «Parla ed io rimerò, oppure fa’ tu le rime ed io parlerò», scelse di parlare, lasciando all’angelo il compito di dare forma poetica a ciò che gli urgeva dentro.

Sembra anche che avesse giurato di non recitare mai una seconda volta una propria poesia, avendole quasi tutte affidate alla trasmissione orale, com’era uso al suo tempo: ciò che ha reso problematica la loro conservazione. Dobbiamo ringraziare un altro grande autore cabilo, Mouloud Feraoun, se abbiamo di Si Mohand una raccolta di 286 poesie con tanto di varianti e di commento, cui si è aggiunta più di recente – ad opera di Ypunes Adli – una seconda raccolta di una cinquantina di inediti, anche se non sempre di sicura attribuzione.

La forma poetica preferita da Si Mohand è l’asefru, una sorta di sonetto di tre strofe di tre versi ciascuna, suscettibili di essere cantate, che ha il vantaggio di concentrare in pochi tratti essenziali ciò che il poeta ha da dire, favorendo, da parte di chi ascolta, la memorizzazione e la trasmissione.

Siccome non sa soffrire in silenzio, egli ha bisogno di esternare i propri sentimenti, di descriversi miserabile quale s’è ridotto. Altro argomento è l’amore sensuale per la donna. Un’altra costante è Dio, l’unico al quale questo ribelle accetta di sottomettersi. Anche quando la sua condotta contraddice ai precetti del Corano, egli non riesce a fare a meno della presenza della divinità nel suo cuore; nei momenti più disperati Dio rimane il suo confidente, colui che non lo abbandona anche quando gli amici vengono meno. La sua familiarità con Dio è tale da arrivare, non di rado, al rimprovero e all’insulto.

È un dato di fatto che questo poeta così poco conosciuto in Europa è ancora oggi ricordato, amato e addirittura venerato come un santo in Cabilia, malgrado la sua condotta di vita non troppo esemplare. Forse perché, in anni in cui il colonialismo era sempre più oppressivo, la gente si identificava nelle tribolazioni e nella voce “libera” di uno che mai si era arreso, anche quando la situazione sembrava senza uscita. Non a caso il suo celebre verso mi spezzo ma non mi piego, già ripreso negli anni Quaranta dai primi canti berbero-nazionalisti, è stato uno degli slogan della “primavera berbera” del 1980 e poi della “primavera nera” del 2001.

Di Si Mohand non ci sono giunte immagini, tranne una presunta che lo mostra in una sfocata foto di gruppo: allampanato, emaciato, con la barba bianca e l’inseparabile sacchetto con la pipa… uno invecchiato anzitempo, a cui la vita ha chiesto tanto. Vengono in mente questi suoi versi: O Dio, cui vanno le nostre preghiere, / reca sollievo al misero/ oppresso dall’amore  e dalla miseria./ Avevo studiato il Corano riga per riga,/ recitato la preghiera a mezzogiorno:/ il mio nome tra tutti era famoso./ Ma adesso, coi capelli bianchi e le rughe,/ subisco gli insulti dei più vili,/ mi sento solo e mi afferra la paura.

Meglio ricordarlo ancora in forze, come lo ha descritto un suo compagno di vagabondaggi: «Di grande statura, bruno, con gli occhi marroni, dallo sguardo ironico e vivace allo stesso tempo. Aveva una barbetta nera che cominciava appena ad ingrigire. Era un grande camminatore. Non saliva mai in diligenza, treno o automobile, non per timore del pericolo ma per spirito di indipendenza. Uno dei tratti dominanti del suo carattere era la curiosità. Chiedeva dettagli sui paesi che attraversava, sui loro abitanti e sui loro costumi. Voleva sapere tutto».

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