Martens, dalle Fiandre all’Europa

Il fondatore del Partito popolare europeo è scomparso il 10 ottobre. Una carriera politica altamente istruttiva, anche per i nostri governanti attuali
Wilfried_Martens

Di umili origini, Wilfried Martens si è trovato alla fine degli anni ’70 presidente dei Cristiano-democratici belgi, il che valeva all’epoca, data la posizione dominante del partito sullo scacchiere politico nazionale, come lasciapassare per diventare, presto o tardi, primo ministro.

E in effetti poi Martens lo è diventato, guidando ben nove governi dal 1979 al 1992 (a casa nostra, pur nell’instabilità che ha caratterizzato la prima repubblica, Andreotti si è fermato a sette). Un periodo delicato per il Belgio, tra grandi difficoltà economiche (il debito pubblico è passato in pochi anni dal 44 al 105 per cento del Pil), tensioni comunitarie tra fiamminghi e francofoni, l’adozione della legge sull’aborto che ha causato l’auto-sospensione, per qualche giorno, del Re Baldovino che non voleva firmarla.

Con grande pragmatismo Martens, che era stato in gioventù un acceso fautore della causa nazionalista (epica la sua marcia sull’Expo ’58 alla testa di un manipolo di studenti fiamminghi), è stato maestro nell’arte della mediazione, della ricerca del compromesso “alla belga”. Piuttosto liberista in economia – era l’epoca di Reagan e Thatcher – è diventato il più strenuo difensore dell’unità del Belgio, accompagnando il paese verso una soluzione federalista che funziona, non senza tensioni, sino ad oggi.

La sua abilità politica consisteva nell’ascoltare tutti, nel corso di lunghe riunioni in cui prendeva nota senza forzare l’emergere di una soluzione. Poi, quando il compromesso affiorava dalle discussioni, Martens lo raccoglieva e metteva il sigillo dell’ufficialità sulla soluzione così trovata. Questo metodo maieutico, che sfrutta in qualche modo l’intelligenza collettiva presente in un gruppo di persone chiamate a compiti di governo, è a mio avviso ancora valido per ogni situazione, come quella attuale nel parlamento e governo italiani, dove la ricerca di soluzioni di compromesso tra visioni opposte è necessaria per far progredire il proprio paese.

Nel marzo del ’92 Martens ha lasciato il posto al rampante Jean-Luc Dehaene, del suo stesso partito. Per la prima volta, contrariamente alla prassi stabilita, non c’era posto per l’ex premier nel nuovo governo guidato da Dehaene. Per Martens è stata una delusione cocente, che più tardi tuttavia chiamerà felix culpa: il fatto di non avere più incarichi di primo piano in Belgio gli permetterà di dedicarsi interamente al Partito Popolare Europeo, che aveva fondato con Helmut Kohl.

In realtà Martens voleva che il Ppe fosse l’aggregazione dei partiti europei d’ispirazione cristiano-democratica, mentre Kohl l’aveva convinto ad aprirlo a tutti i partiti conservatori – infatti il PPE accolse nel suo seno alla fine degli anni ’90 anche Forza Italia, non senza un certo turbamento da parte di alcuni dei partiti di centro-destra europei.

Il 10 ottobre, all’età di 77 anni, Martens ci ha lasciati dopo 23 anni di presidenza ininterrotta del Ppe. Anni in cui è stato fautore di un’Unione europea aperta ai nuovi stati che andavano nascendo oltre la cortina di ferro, promotore della riconciliazione tra i paesi dell’ex-Iugoslavia, precursore di un’unione politica più forte tra gli stati membri dell’Ue, unione politica che potrebbe ora vedere la luce sotto la spinta della crisi economica.

Convinto difensore degli interessi delle Fiandre in gioventù, paladino del Belgio unito da primo ministro, convinto europeista negli anni della maturità. Un percorso di apertura progressiva delle vedute e degli interessi in gioco che possiamo augurare anche a tanti dei nostri politici.

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