L’infinito “Processo” mentale di Kafka

La famosa opera dello scrittore praghese rivisitata dal regista Andrea Battistini in scena in questi giorni al Teatro Vascello
Il Processo
 “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. Poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato…”. Inizia così l’odissea interiore del protagonista de Il processo di Franza Kafka. A riproporlo dopo molti anni di assenza sulle scene italiane è il regista Andrea Battistini e il debutto è avvenuto al Teatro Vascello di Roma.

 

«Il desiderio che ha dato vita all’adattamento e alla messa in scena del romanzo – spiega il regista – è stato quello di raccontare la pagina kafkiana mettendoci al servizio dell’autore, fornendo alla lettura gli strumenti della messa in scena, dando forma tridimensionale alle straordinarie sequenze dialoganti usando le parti narrate, non occupate dal discorso diretto, non rinunciando a dare voce a passaggi particolarmente poetici, o grotteschi o vorticosamente incalzanti, riflessioni, descrizioni, azioni, ritmi… vocazioni di quel lusso inarrestabile che è la scrittura kafkiana». Processo, incomprensione, senso di colpa, angoscia, solitudine, oppressione, morte. Il protagonista è processato, e poi condannato per una colpa non commessa, ignota, attribuita a se stesso.

 

“L’ordinemosso da potenze misteriose e imperscrutabili viene portata a compimento. K. viene ucciso da due “figuri” come un cane – disse –, e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”. Incastonato dall’inquietante struttura progettata da Carmelo Giammello – una grande stanza con porte che s’aprono e chiudono, che sbattono e cigolano, accompagnate da costanti rumori e suoni cupi – lo spettacolo si modifica con la rapidità di un montaggio cinematografico. Un elemento claustrofobico del testo si amplifica non tanto in un disegno formale ma nella sua profonda sostanza, nel riproporre al signor Kappa le medesime facce in personaggi differenti, quasi come se la vergogna lo inseguisse sempre con gli stessi occhi, gli stessi volti, senza scampo. Proprio come la scrittura di Kafka.

 

Siamo nella “tana” della mente, nel letto di K., nella sua camera, nella pensione che lo ospita, poi in strada, in banca, dall’avvocato, nel tribunale e così fino alla fine. A liberarlo, se non dalla colpa almeno dal peso del corpo, in una sorta di pantomima diabolica, il disperato e grottesco autoesilio kafkiano tocca limiti mai raggiunti prima di Kafka e da Kafka stesso. Le capacità espressive degli attori, assurgono qui ad un parossismo vertiginoso invadendo e modificando lo spazio scenico in una miriade di personaggi e situazioni. Così come Raffaella Azim che interpretando tutti i personaggi femminili rappresenta il femmineo kafkiano, o Totò Onnis ne rappresenta l’autorità in tutte le sue forme dal prete, al padre, all’ispettore di polizia.  Tutti tesi ad interpretare, in modo quasi naturalistico-cinematografico, il pensiero e le azioni di K. in un impasto visivo e sonoro, chiave espressiva dell’elemento poetico grottesco segnato dallo stesso autore praghese.

 

Scene Carmelo Giammello, costumi Stela Verebeceanu, maschere Iurie Matei; con Raffaella Azim, Filippo Gili, Giovanni Costantino, Totò Onnis, Alessandro Baggiani, Petro Mossa, Davide Rampini.

Al Teatro Vascello di Roma, fino al 15 gennaio

 

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Il voto cattolico interessa

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons