L’incostituzionalità dei ministeri al Nord

Il presidente Napolitano ha esposto i suoi dubbi su un trasferimento delle sedi senza atti giuridici adeguati e in violazione della Costituzione
Targhe dei ministeri di Monza

Siamo sinceri, a voler parlare della vicenda delle sedi “di rappresentanza operativa” degli uffici dei Ministri per le riforme e per la semplificazione normativa, si rischia di lasciarsi scappare qualche giudizio troppo pesante. Ma come si fa a lasciar passare tutto senza commento? Per fortuna (anzi: meno male) che c’è il Capo dello stato, che ancora una volta ha saputo svolgere il proprio ruolo in maniera impeccabile e c’è di che essergli grati.

 

Il fatto è che l’atto compiuto dai ministri Bossi e Calderoli (con l’assistenza dei ministri Tremonti e Brambilla), vale a dire l’inaugurazione delle sedi decentrate dei ministeri loro affidati, è di grandissima gravità istituzionale; e nella sua lettera, il presidente Napolitano lo denuncia apertamente. È uno «spostamento non legittimato né dalla Costituzione che individua in Roma la capitale della Repubblica,né dalle leggi ordinarie», dichiara Napolitano.  

 

E lo si capisce mettendo a fuoco un aspetto, solo apparentemente marginale, della questione: il tipo di provvedimento adottato per autorizzare l’apertura delle sedi di Monza. Si tratta di due semplici decreti ministeriali, firmati dagli stessi ministri. Intanto, nessuno li ha visti. Non solo non sono pubblicati o almeno annunciati nella Gazzetta Ufficiale, come ha notato il Capo dello Stato nella sua lettera, ma non è possibile reperirli neppure presso gli uffici legislativi della Presidenza del consiglio. Forse un’interrogazione parlamentare potrebbe, chissà, ottenerne l’esibizione e l’illustrazione dei contenuti, ma al momento non risulta che neppure un solitario parlamentare abbia firmato un atto del genere (una interrogazione, del sen. Bosone, si preoccupa di chiedere i costi dell’operazione, ma l’aspetto legato al tipo di provvedimento non è contemplato).

 

 Il Capo dello stato ha giustamente messo in evidenza l’inidoneità (e quindi l’illegittimità) di un semplice decreto ministeriale a produrre effetti di tal genere sull’organizzazione dei uffici pubblici. E questo basta a spiegare il perché di tanta opacità e di tanto mistero: due ministri hanno fatto una forzatura, prendendo provvedimenti che non potevano prendere, e quindi l’atto non si può rendere pubblico.

 

Il pensiero va anche agli uffici preposti alla stesura degli atti ministeriali: quale leguleio sarà mai stato talmente lontano dal diritto da aver acconsentito a scrivere quei decreti? Si apre un altro spaccato su un mondo in ombra, quello dei “tecnici” che affiancano i politici, spesso meri esecutori di qualunque ghiribizzo. Un discorso, anche questo, che condurrebbe lontano. Un’unica domanda: nello stato di diritto le regole presidiano alla giustizia e alla uguaglianza, scongiurando l’arbitrio; ma quando anche gli atti giuridici sono usati per vestire gli arbìtri, è giurista colui che li fa?

 

In fondo, però, il guaio è che nihil sub sole novi (niente di nuovo sotto il sole), siamo alle solite. Da questi fatti si evincono i dilemmi che travagliano parte della maggioranza e cioè esercitare la funzione pubblica nazionale vincolata dall’essere ministri al servizio del Paese o invece  assecondare propagande secessioniste talvolta aggressive e poco rispettose dell’ordinamento repubblicano.

Certo è che bisogna cominciare a reagire, riscoprendo il valore delle nostre istituzioni, che sono un patrimonio del paese e servono la sua unità. Non si può lasciarle usare per ragioni di propaganda, lontane da un consenso maturo che una democrazia autentica richiede.

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