Le fessure tra le “sbarre”

Prende il via il 28 settembre su Raidue una trasmissione che entra nel carcere di Rebibbia. I volti e le storie di chi sta dentro e fuori la realtà penitenziaria, visti dagli occhi del regista Piergiorgio Camilli
sbarre

Da mercoledì 28 settembre alle ore 23.40 su Raidue va in onda Sbarre, la prima docureality che entra dentro una delle carceri più famose d’Italia: Rebibbia. Otto puntate narrate dal cantautore Fabrizio Moro, per un viaggio dentro le emozioni e le storie colte fra le “fessure”.

 

A margine della presentazione abbiamo incontrato il regista Piergiorgio Camilli. A soli 29 anni si è trovato a gestire la lavorazione di un programma “complicato”, così come ci hanno raccontato i protagonisti. «In effetti è stata un’esperienza particolare, dal punto di vista umano e professionale. Ci siamo accorti subito, parlando con gli autori e i produttori, che avremmo dovuto raccontare una realtà cruda che pochi conoscono, senza ferire la sensibilità di ciascuno, e rispettando la verità delle storie, anche dal punto di vista giudiziario, ma cercando comunque un punto di svolta per tornare a sperare».

 

Non è la prima volta che le telecamere entrano in un carcere, ma c’è una scelta narrativa che rende il programma diverso dagli altri.

 

«Non abbiamo voluto raccontare la vita dei carcerati. L’idea degli autori è stata quella di dare a chi vive fuori dal carcere la speranza e la coscienza di dover vivere bene la propria vita. In ogni puntata c’è un ragazzo borderline che ha avuto qualche problema con la giustizia ma che ancora non ha dovuto pagare con la detenzione. E’ il ragazzo che incontra un carcerato con il quale passa una giornata intera. Noi raccontiamo in punta di piedi la bellezza e la tenerezza di questo incontro fra due persone che comunque soffrono. Questo fa scaturire un messaggio di speranza che dà al ragazzo la voglia di cambiare vita, e di renderla migliore. E non si tratta solo di paura per la fine che si potrebbe fare».

 

In ogni puntata ci sono quindi due storie che si intrecciano, con una forte base emozionale. L’una all’altra si fanno coraggio, e diventano un osservatorio privilegiato sul disagio giovanile e la realtà carceraria italiana. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

 

«Ho imparato tantissimo. Eravamo tre operatori, compreso me, a riprendere tutto a spalla senza poter usare luci o fare prove. Abbiamo fatto tutto in presa diretta. Abbiamo imparato ad ascoltare e rispettare una persona, cercando i lati più nascosti ma anche più belli che ogni essere umano possiede nonostante i propri errori. Nel racconto non abbiamo negato certamente le colpe che ogni carcerato paga, non abbiamo voluto creare dei martiri o degli eroi. Abbiamo solo mostrato cosa può fare un percorso riabilitativo dentro un carcere, come può cambiare una persona grazie al rapporto con l’altro, vivendo il dolore in prima persona. Ecco perché posso dire che questo lavoro mi ha cambiato, perché ha dato altre prospettive alla mia conoscenza, alla mia voglia di usare le telecamere per testimoniare la speranza e trasmettere questa stessa consapevolezza ai telespettatori».

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