Lavoro. Garanzie ed equità

Importante decisione del presidente Napolitano che ha rimandato alle Camere il “collegato lavoro” . La norma prevedeva, nelle controversie tra aziende e dipendenti, la sostituzione del giudice con un arbitro.
Parlamento

Anche se la normativa era in discussione da circa due anni, solo a fine 2009 sono emerse pubblicamente forti critiche al cosiddetto “collegato lavoro”, cioè il disegno di legge governativo approvato in via definitiva dal Senato lo scorso 3 marzo, dove si prevedeva il ricorso all’arbitrato in alternativa alla via giudiziale con tentativo di conciliazione obbligatoria. Più di cento tra giuristi ed economisti, tra i più accreditati, hanno sottoscritto un appello denunciando la «natura eversiva» dell’ordinamento giuridico contenuta, tra l’altro, nella nuova disciplina dell’arbitrato nei rapporti di lavoro che verrebbe a «destrutturare la stessa effettività dei diritti dei lavoratori». 

 

Ragioni che, a quanto pare, hanno indotto il Presidente della Repubblica a rimandare il testo di legge alle Camere per un «opportuno ulteriore approfondimento», chiedendo la realizzazione di un «quadro di precise garanzie e di un più chiaro e definito equilibrio tra legislazione, contrattazione collettiva e contratto individuale». Le ponderate parole del capo dello Stato si rivolgono alla previsione, prevista nella nuova normativa, di inserire al momento della stipula del nuovo rapporto di lavoro una clausola di rinuncia alla giurisdizione ordinaria e di devoluzione del contenzioso eventuale ad un arbitro. Ovverosia ad un giudice cosiddetto privato, scelto con il consenso di entrambe le parti, chiamato a decidere secondo criteri di equità. Il verdetto dell’arbitro risponde alla necessità di dare certezza e rapidità alle questioni dibattute e perciò ha la caratteristica di non essere appellabile, tranne che per vizi di procedura.  Una modalità, l’accordo preventivo sull’arbitrato, comunemente adottata nei rapporti commerciali.

 

Si comprende perciò come proprio questa sottrazione alla legge ordinaria sia stata considerata come una manovra per aggirare indirettamente l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che obbliga la reintegrazione sul posto di lavoro di coloro che vengono licenziati senza giusta causa. Normativa che vale solo per le aziende con oltre 15 dipendenti.

 

Sembrava che ogni perplessità fosse stata superata da un accordo siglato l’11 marzo con cui si esclude che «le clausole compromissorie all’atto dell’assunzione possano riguardare il licenziamento». Una dichiarazione di intenti, chiamata tecnicamente “avviso comune”, siglata da una trentina di parti sociali tra cui Cisl, Uil e Ugl nonché Confindustria, Confcommercio e Confesercenti. Senza la Cgil e i sindacati di base.

Ma la decisione del Presidente Napolitano evidentemente rimanda alla questione del principio espresso nell’articolo 35 della Costituzione che dichiara: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni».

 

Non solo il licenziamento, ma tutta la vita del rapporto di lavoro ha bisogno di una garanzia dell’applicazione di una normativa il cui presupposto fondamentale è quello di aver a che fare con una relazione che nasce diseguale. Un divario socio economico che la giustizia del lavoro è chiamata non tanto a certificare quanto a riequilibrare.

Come si può notare, dietro una definizione che potrebbe apparire solo di carattere processuale si pone una dialettica ancora viva sul mondo del lavoro. Da parte governativa più volte si è dichiarato che l’introduzione di tali nuove normative sul lavoro sono necessarie per «alzare la produttività e incoraggiare la massima fluidificazione dei rapporti di lavoro» e che «l’equità non è il regno dell’arbitrarietà», ma la risposta all’esigenza comune di avere una tempestiva definizione della controversia.  

 

Il rinvio alle Camere della legge, seppur accompagnata da una dichiarazione «sugli apprezzabili intenti riformatori del provvedimento», potrebbe rimettere al centro del dialogo, più che un aggiustamento tecnico, la necessità di confrontarsi sul senso del dettato costituzionale in materia di lavoro. Impresa che non è certo favorita, per riprendere la nota presidenziale, dalla «estrema eterogeneità della legge e in particolare la complessità e problematicità di alcune disposizioni».  Problematicità che su altre questioni affrontate nella legge, anche se non rientranti nelle osservazioni di Napolitano, provocheranno un vivo contenzioso in sede di applicazione con ricorso alla Corte Costituzionale.

 

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