L’attimo fuggente di Boldini

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Scappa la vita, ed è subito sera. Meglio coglierne l’attimo che fugge, posare in quel momento a dare un’immagine elettrizzante di noi stessi, per poi precipitarsi nel vortice dell’esistenza. Mai troppe domande, tuttavia: non c’è il tempo. Sembrano parlare in questo modo i ritratti di Giovanni Boldini, grande maestro della Belle Époque, punto fermo di una galleria di donne fatali dagli occhi scuri e impenetrabili e dalle movenze flessuose in abiti di seta; di gentiluomini eleganti, di bambini, anche, dall’innocenza nascosta, che già si atteggiano a grandi. Un’umanità raffinata, che ha il culto dell’apparire, e pare ignorare qualsiasi accenno di dolore. Il proprio e quello di una società che, a fine Ottocento, è ben altra cosa dal mondo della mondanità parigina della buona borghesia o dell’aristocrazia, dove il pittore ama vivere, dopo gli anni della giovinezza macchiaiola a Firenze, alla ricerca ostinata del successo internazionale. Boldini ha il dono dell’estro, non c’è dubbio. Quell’intuizione fulminea del personaggio che gli permette di fissarne il carattere con il segno guizzante, il colore elettrico, il senso del dinamismo perpetuo, anche quando la figura – piccola o monumentale – sembra immobile. Ricordando i prediletti Hals, van Dyck, Tiepolo, ma anche i contemporanei Degas e Sargent, Boldini inscena un teatro dell’immagine: ognuno sceglie e recita lasua parte, si mostra come vuole lo si veda. Ed il pittore avvolge i personaggi in un’aria lievitante, come la musica degli Strauss o di Offenbach, che inneggia ad una gioia di vivere che è un po’ finzione e un po’ realtà. Nelle Ballerine spagnole al Moulin Rouge (1905), il colore steso a pennellate taglienti, i fiori carnosi, suggeriscono le forme immergendole in un’aria di dinamismo sensuale, talora fin troppo spavaldo (Ritratto di Mademoiselle Lanthelme, 1907) o addirittura manieristico, come nel Ritratto della marchesa Casati con penne di pavone (1913). In quest’ultimo, Boldini si lancia in un vortice di moto di cui è fulcro l’occhio nerissimo della marchesa, dominatrice passionale dello spazio, una creatura dannunziana. Di fronte a queste immagini orgogliose, i ritratti maschili appaiono pacati: chiusi e inavvicinabili come il celebre pastello di Verdi (1886), languidi dandy come il pittore Alexander Harrison (1902), tranquilli borghesi (Ritratto di monsieur Henry Poidatz, 1889); o, se sono bambini (Ritratto del piccolo Subercaseaux, 1891), anime quasi smarrite, bisognose d’affetto, che il pittore accarezza indugiando in larghe falde bianche e nere. Raramente tuttavia questi personaggi si comunicano con noi. Sembrano soddisfatti di esporre la propria vitalità, continuando a prendere la vita come un gioco. È gente di successo: lo sa, e Boldini – che ci crede – lo mostra. Ma sotto la danza dell’apparire, ecco un’inquietudine che il pennello nervoso del pittore non può nascondere. Gli occhi della bionda Mrs. Peter Cooper Hewitt (1913), apoteosi fra rami di rose della donna secondo lo stile boldiniano, emanano una tristezza che non è passeggera. È velata, sfuggente; la stessa che un’altra apparizione, la Signora in bianco del 1889 lasciava, nonostante il fulgore della scena, trasparire. C’è come un senso di disagio, una stanchezza nel dover recitare un ruolo. Sono questi attimi fuggenti dell’anima che Boldini, senza volerlo (?), ha spiato e raccolto: sino a quando, ottantanovennne, se ne va, nel 1931. Forse è anche questo che lo rende ancora vicino a noi, così attuale.

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