La transizione araba avanza

Le enormi manifestazioni contro il presidente Morsi testimoniano che la primavera araba è transizione araba. Nulla è più come prima
Proteste in Egitto contro il presidente Morsi

Fonti dell’esercito stimano a circa 12 milioni il numero degli egiziani scesi in piazza nella giornata di domenica per chiedere al presidente Morsi di andarsene, ad appena un anno dalla sua elezione. Se i Tamarod (i ribelli) hanno presentato 22 milioni di firme per il cartellino rosso al presidente, dopo che questi era stato eletto con circa 17 milioni di preferenze, vuol dire che qualcosa di profondo è mutato nello scenario egiziano.

In effetti, come ci assicurano le nostre fonti locali, sembra proprio che la delusione della popolazione “normale” – quella che non fa parte dei due-tre milioni di veri militanti dei Fratelli musulmani e del milione, più o meno, dei salafiti – sia grande: nessun risultato dal lato economico, salvo l’aumento del debito estero, col turismo ancora quasi inesistente e le industrie in gravi difficoltà; islamizzazione progressiva delle leggi dello Stato con limitazioni potenzialmente deflagranti, come quella sull’alcol; ma, soprattutto, la delusione è grande per una politica di occupazione del potere, una vera e propria ingordigia.

Forse è comprensibile una tale smania di potere – che porta i Fratelli musulmani a cercare di occupare spazi sia nella magistratura che nella polizia, sia nell’amministrazione che nelle aziende statali –, considerando i sessant’anni di persecuzione messa in atto dai vari regimi di Nasser, Sadat e Mubarak; ma certo non è più tollerabile nel XXI secolo. In sostanza la gente dice: abbiamo dato fiducia ai Fratelli musulmani, sperando che la loro politica avrebbe tenuto conto delle spinte democratiche e partecipative espresse dalla “prima primavera egiziana”. Ma nei fatti, anche per una cronica mancanza di personalità all’altezza del governo di una nazione grande e gloriosa come l’Egitto, Morsi ha fallito. Ergo: deve andarsene.

Il presidente ha fatto dire dal suo portavoce che è disposto al dialogo, ma non ad andarsene. L’esercito, nel frattempo, sta alla finestra e non interviene, anche perché le manifestazioni di ieri sono state estremamente pacifiche: i sette morti lamentati, sono frutto di alcune teste calde o di provocazioni ben orchestrate. Non pochi osservatori lamentano ad esempio come l’assalto alla sede dei Fratelli musulmani di alcuni “vandali” (così li hanno definiti i “ribelli”, assai indispettiti che la dimensione pacifica delle manifestazioni fosse rovinata da qualche episodio stonato) sia stata ripresa dalle telecamere senza che si vedesse un solo poliziotto in difesa del palazzo attaccato…

Ora non si sa che cosa succederà. L’atmosfera nelle strade del Cairo e di Alessandria, come di altre città del Paese, è assai calma. La gente ha ripreso il lavoro senza problemi, le piazze sono tornate sgombre, o quasi, l’esercito è calmo. Ma la determinazione dei “ribelli” è tale che sicuramente le manifestazioni riprenderanno. E c’è da giurare che la forza di questi ragazzi e la fantasia araba ci riserveranno non poche sorprese nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. Anche se rimane l’incognita del comportamento dell’esercito nel caso di incidenti ripetuti…

La coesione nazionale è stata ritrovata contro Morsi e i Fratelli musulmani, e non sembra ancora plausibile l’ipotesi di una guerra civile, a meno che fattori esterni o inasprimenti improvvisi non provochino un rapido degrado della situazione. E non va dimenticato che l’Egitto è la testa pensante del mondo arabo: quanto sta avvenendo nelle sue piazze avrà un’influenza anche negli altri Paesi arabi toccati dalla “transizione”, Tunisia, Siria, Libia… L’Islam politico pare aver conosciuto una cocente sconfitta col fallimento di Morsi. Ma guai a pensare che l’Islam debba rimanere fuori dalla sfera pubblica: significherebbe non conoscere per nulla i Paesi musulmani.

Ultima nota, purtroppo ricorrente: l’Europa appare assente nello scenario egiziano. Non sarebbe il momento per battere un colpo e assicurare al Paese non solo soldi e finanziamenti (pochi, peraltro), ma anche una vicinanza più politica?

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