Il nostro augurio a Zavoli

Sergio Zavoli il 21 settembre ha compiuto novant'anni. Oggi lo festeggia il presidente della Repubblica assieme a trenta selezionati amici nella sede Rai di viale Mazzini. Città Nuova si unisce al coro di auguri pubblicando la prefazione, da lui scritta, al libro Magnificat di Piero Coda
Sergio Zavoli e Anna Maria Tarantola

Rammento che da fanciullo, nella chiesa dei Salesiani a Rimini, domandai a don Rossi – un giovane sacerdote, tollerante e amabile – se avesse mai pensato alla nascita di Gesù come a una sorta di favola sacra, con cui lasciar dolcemente dondolare l’idea di Dio nella mente di noi bambini.

Si sedette su una panca tenendomi in piedi davanti a sé, per avere i suoi occhi nei miei, e la risposta venne quasi la dovesse a sé stesso, raccontando con quali parole, in seminario, se l’era cavata di fronte a un’impertinenza pari alla mia, e confidandomi come non riuscisse a immaginare che si potesse aver figli se non da una madre e un padre!

Ma poi, procedendo nei suoi dubbi, e rimettendo il prodigio nei poteri di Dio, tutto via via diventava mirabilmente credibile! Gesù stesso, d’altronde, aveva raccontato che il Padre celeste si era rivolto a una creatura giovane e serena, capace di stupore e mitezza, e ogni cosa era accaduta secondo la volontà di Dio.

Ed ecco che in questo Magnificat Piero Coda si rivolge a Maria in uno stato come di sognante, tenera devozione; è, d’altronde, l’ingresso di Dio nella realtà rivelata da Gesù, ed è un’anima che s’inchina di fronte a quel segno.
In queste pagine sa di doversi misurare con gli strumenti di una fede che sarà fonte di incomparabili stupefazioni: Gesù sulla croce, il grido al Padre da cui si sente abbandonato, l’abbagliante resurrezione, il ricomporsi di tutto nel paradigma supremo dello Spirito, santificato nelle Tre divine identità di chi visse quell’accecante testimonianza. Dove la narrazione è rivissuta con il linguaggio di una preghiera secolare, incarnata, per dir così, in un animo che oggi, Piero, giustifica il tuo monologo; tanto da doverci chiedere se questo cantico non fosse già una lontana, sottesa interlocuzione con Maria. Ma non è una semplice rammemorazione, è il ritorno di un testo divenuto materia viva; che da un’acqua quasi immota torna a ruscellare, sospinta da una voce divenuta di natura, cioè terrena e universale, chiedendo di essere riascoltata, tal quale, nel canto di allora, oggi finalmente concluso nella sua raggiunta sacralità.

Tra le righe, espressivo e significante, riappare il pensiero di Chiara Lubich, china sui frammenti dell’indivisibile, cioè l’uomo, per ridurre le fratture del condivisibile, cioè la comunità, piccola o grande: il dono più alto, perché muove dalla capacità di mettere la nostra vita in rapporto con quella altrui, non potendosi dare un’umanità di persone e di vite esistenti ciascuna solo per sé stessa.

Il prezzo, insomma, è l’altro. Non quello degli psicologi o degli psichiatri, dell’antropologo o del socioanalista, oppure dell’esistenzialismo o dell’ideologia, ma proprio quello non tutelato nella sua alterità, non riconosciuto, non visto, e tuttavia presente in nome dell’ancestrale necessità di riconoscersi in una madre comune, quindi nel nostro stesso viaggio umano. Non a caso Chiara ripeteva: «Dovete essere l’uno la madre dell’altro». L’altro, senza pensare il quale la tua persona è diminuita come premessa e memoria di quella “tela apparentemente senza significato che è la storia”, per dirla con Goethe; nella quale, invece, ciascuno vale tutta l’umanità e deve risponderne interamente. (…)

Quando Chiara Lubich, uscita indenne da un terribile bombardamento, si domandò che cosa, morendo, più di tutto temesse di perdere, rispose: “l’Ave Maria”. Non parlava di una preghiera, ma di un colloquio con chi, generando il Figlio di Dio nel suo corpo, offriva anche a noi la possibilità di dire “Padre nostro”: grazie a Maria l’Eletta, a Maria l’Assunta, ma soprattutto a Maria la Desolata ai piedi della Croce – dove Chiara, semplicemente, contro la mariologia edificante, è “per Jesum ad Mariam”, e non “ad Jesum per Mariam”, ora che il suo grembo ha riempito il mondo con il Figlio di Dio che muore sulla terra, fedele a una indissolubile Trinità; tant’è che Gesù proprio al rifiuto della solitudine e al disegno della scambievole continuità l’uno nell’altro, e per l’altro, dovette pensare quando, prossimo ad annientarsi, affidò alla madre Giovanni: “Ecco, donna, il tuo figlio!”. Maria, dirà Chiara, non conobbe soltanto il dolore di lasciare Gesù sulla Croce, ma anche di vedersi indicare chi avrebbe dovuto prenderne il posto nella sua vita terrena. (…)

Conosco Piero per le tante cose che Chiara, in primis, dovette percepire nel farlo partecipe della sua interiorità; e posso capire – per avere ricevuto, da entrambi, preziose attenzioni – come il Magnificat di Piero nasca da un dialogo su cui Chiara fondò la loro discreta, ma fervida vicinanza. Mi prendo anzi la libertà di pensare che questo libro rappresenti la metafora di una fruttuosa stagione ispirativa. Piero non ha scritto un testo virtuoso, ieratico, oracolare: la madre del fanciullo di Nazareth era una ragazza che avendo ospitato nel suo seno il centro radiante dell’evento cristologico, da quel momento si chiamerà “l’Immacolata Concezione”, cioè la stessa madre luttuosa che piange il suo incomparabile figlio ai piedi di una Croce, cui si dovrà il cantico rivolto a Dio, il Magnificat, attribuito alla dolorante e però consapevole testimone delle «grandi cose operate in lei, e grazie a lei, dall’Onnipotente».

Quando dal racconto della nascita di Gesù emergerà anche l’immagine di Giuseppe, indicandoci nella venuta del Messia il compimento della promessa fatta dal Signore a Israele, Giuseppe così spiega l’Annuncio: “Perchè la creatura generata in Maria discende dallo Spirito Santo”. E qui, dentro di me, riaffiora dai catechismi infantili l’immagine dei bambini che per gioco si rincorrono nei vicoli di Nazareth, e chi raggiunge Gesù, sfiorandolo appena, inconsapevolmente tocca Dio stesso.
 
Piero Coda – oggi rettore dell’“Istituto Universitario Sophia” di Loppiano, centro internazionale di studi anche ecumenici – non si compiace dell’aggraziata qualità anche formale di queste pagine ricondotte al posto loro, cioè nelle case; è come se il tempo avesse da sé levigato un prezioso cammeo dove è incisa una salmodia delicatamente amorosa, dovuta non solo alla finezza del teologo di rango, ma anche del credente che non si abbandona a una tonalità meramente effusiva; il suo animo, infatti, esprime il confidente bisogno di attingere alla più avvolgente natura di un mistero che quanti vivono l’invidiabile pienezza della fede hanno il diritto di chiamare “gaudioso”. Per altri resterà il monologo di una coscienza grazie alla quale anche il laico più inquieto può indagare sulla sua fides infirma, con la libertà del credere assentendo di Agostino d’Ippona.
Lo dichiara anche questo libro, che si ispira alla fede in Dio con un “fondamento” anche umano, simile alle nostre incognite, fiduciose soste dinanzi alle indicibili certezze.

Sergio Zavoli

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