I rischi di una guerra che lascia perplessi

I dubbi sulla opportunità di un conflitto strano si rivelano sempre più profondi. Le divisioni nel campo degli attaccanti e la difesa strenua del rais. Mentre la gente muore e soffre.
Raid aereo sulla Libia

Anche nella sera di lunedì mons. Martinelli al telefono non va per le spicce, con accenti biblici: «Ogni notte abbiamo il nostro inferno di bombe e boati. Quando sento gli aerei arrivare, mi chiedo immancabilmente: “Perché mi hai abbandonato?”. È possibile vivere una situazione così assurda e difficile pensando di risolverla solo con la forza? Non bastano i desideri di prestigio e di vittoria, serve ragionevolezza e attenzione ai popoli! Non c’è altra forza vincente… La forza senza saggezza e sapienza è vana». E nel frattempo si adopera con il vescovo di Tunisi per cercar di risolvere i problemi di alcune migliaia di emigrati somali, eritrei, congolesi che stazionano attorno alla cattedrale, e che oggi, martedì, dovrebbero prendere la via della Tunisia.

 

Rimangono allora validi, anzi paiono diventare sempre più plausibili, le dieci perplessità da noi espresse ieri sulla guerra in corso, scatenata con indubbia precipitazione e senza coordinamento, dopo una fase di sterile azione diplomatica internazionale. Eccole di nuovo:

 

1) una guerra si sa come comincia, ma non come finisce. Lo abbiamo visto recentemente in Iraq, in Afghanistan, nello stesso Kosovo, in Serbia, in Rwanda. Ma, come scrive l’Annunziata su La Stampa, «l’attacco che l’Europa muove oggi a un alleato di trent’anni è comunque la certificazione di uno schema politico andato a male». Senza considerare il difficilissimo contesto diplomatico internazionale e la divisione nel campo degli attaccanti, con le prese di distanza da Francia e Gran Bretagna di Lega Araba, Cina, Russia, Norvegia e ora anche Italia;

 

2) è una guerra giusta quella intrapresa? Per certi versi parrebbe di sì, perché una dittatura non è mai tollerabile, in nessun luogo e in nessun tempo. Ma ci sono dubbi. Due profeti del cattolicesimo, tra i tanti citabili, Sergio Quinzio e Igino Giordani, parevano mettere dei limiti a queste giustificazioni: l’uno diceva che «la giusta guerra non è mai giusta», mentre il secondo titolò un suo libretto L’inutilità della guerra. È molto incerto il confine tra le due, soprattutto in questo caso. Anche Giuliano Ferrara scrive: «Ci siamo imbarcati in un’impresa piena di ambiguità»;

 

3) le rivoluzioni in corso nel mondo nord-africano e arabo in genere meriterebbero un’attenzione particolare da parte dell’Occidente e dell’Europa in particolare, che potrebbe proporsi come un polo mediterraneo assolutamente unico di libertà, uguaglianza e fraternità – al proposito, scrive Predrag Matvejevic su La Repubblica: «Il Mediterraneo si presenta da tempo come uno stato di cose, ma non riesce a diventare un progetto» –. Mentre ora rischia come tante volte è accaduto in passato di apparire solo come una congrega di guerrafondai colonialisti che desiderano spartirsi le ricchezze altrui, non avendo nei fatti una grande considerazione delle popolazioni locali. Dice Formigoni (e non solo Vendola): «Si rischia di alimentare il sentimento anti-occidentale». Le manifestazioni di lunedì in Egitto confermano questo timore;

 

4) le tendenze radicali e islamiste sono molto attive in tutta l’Africa settentrionale, come testimonia anche il referendum del 20 marzo in Egitto. Bisognerebbe appoggiare nei fatti (e non con le armi) le tendenze dialoganti e umaniste che esistono nel mondo arabo. La storia dice che le armi servono ben poco a questo scopo.

 

5) parliamo del problema immigrazione: conflitti come quello in corso rischiano solamente di accelerare e ingigantire la tendenza, per ragioni economiche, delle masse nordafricane (con africani sub-sahariani al seguito) a cercare rifugio a Nord, e varcare quindi il Mediterraneo. Il flusso rischia di essere incontrollato e incontrollabile (vedi la situazione ormai insostenibile di Lampedusa, per la quale l’esecutivo dovrebbe fare di più e meglio), suscitando anche reazioni di xenofobia e razzismo (o forse solo di paura) altrettanto incontrollate e incontrollabili nelle popolazioni europee. Mentre ora bisognerebbe poter gestire l’inevitabile flusso con spirito concorde e benevolente, cosa che l’Europa non riesce a fare;

 

6) la guerra è il teatro principe della menzogna. Lo scrive Robert Fisk, il più grande war reporter vivente, che definisce i conflitti bellici come «il mercato delle buone e cattive notizie fabbricate». Le schermaglie tra attaccanti e difensori lo confermano anche questa volta: la menzogna è norma nella guerra. In questo momento ci sarebbe invece bisogno di verità, di conoscere i fatti nella loro veridicità e di accompagnare nella sincerità le difficoltà dei popoli nordafricani:

 

7) siamo sicuri che le guerre chirurgiche dell’Occidente non facciano alla fine tante, troppe vittime civili? Troppe vicende belliche smentiscono questa solida certezza di tanti politici e militari. Benedetto XVI l’ha ricordato invocando «innanzitutto la sicurezza dei cittadini». Anche sui primi raid di questa guerra incombe ormai il dubbio atroce di avere colpito degli innocenti, e non solo perché il rais schiera scudi umani a difesa dei luoghi “sensibili”;

 

8) il conflitto in Libia rischia di far esplodere le secolari tensioni interetniche che oppongono tripolitani e cirenaici, con l’esito finale possibile di una spartizione del Paese. È questa la migliore soluzione auspicabile? Se lo chiede anche il generale Usa Zinni, tra i principali strateghi dell’avventura irachena, che stigmatizza «le idee confuse» della coalizione, chiedendosi se il risultato finale della guerra non sarà semplicemente «la divisione della Libia in due»;

 

9) l’Italia è particolarmente esposta alle ritorsioni di un regime ferito e rabbioso, che non ha mai fatto della razionalità il proprio credo. Tanto più, come sostiene il vescovo di Tripoli, mons. Martinelli, «che l’Italia fino a qualche giorno fa si dichiarava amicissima della Libia e ora invece lancia i suoi aerei contro di essa». Aggiunge il vescovo: «L’Italia era nelle condizioni di essere la vera mediatrice di questa situazione ingarbugliata, e i libici stessi, a quanto mi risulta, avevano cercato il contatto senza ottenere risposta». Ora il governo pare muoversi, ma in ritardo grave, rivendicando un’autonomia direzionale rispetto ai francesi, ma non sapendo bene in che direzione andare;

 

10) i costi della guerra si calcolano in miliardi di dollari. In tempo di crisi economica, siamo sicuri che questa sia la soluzione migliore per risolvere i problemi economici dell’Occidente? I soldi che si spendono e si spenderanno potevano essere spesi per avviare una seria e duratura operazione di partenariato economico e culturale col mondo arabo e nord-africano.

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