Una giornata in un ospedale Covid

La toccante testimonianza di un fisioterapista impegnato in prima linea nell'assistenza ai malati Covid. In ospedale le persone ricoverate soffrono la solitudine per via dell'impossibilità di vedere i propri affetti, ma nascono anche delle relazioni speciali con chi si prende cura di loro

Due piedi nudi spuntano da un paravento in una stanza di degenza. L’infermiera con voce rauca e filtrata dalla mascherina singhiozza: «È il terzo oggi che se ne va». Un cigolio di ruote usurate invade il corridoio. Avanza la cassa metallica tra la frenesia del personale che lavora senza sosta. Mi fermo e alzo al cielo un’altra preghiera per una persona che ha terminato il suo percorso di vita sulla terra nella solitudine e lontana dagli affetti.

Inizia la mia giornata in ospedale Covid insieme ai miei colleghi fisioterapisti dopo la lunga procedura di vestizione. Siamo tutti uguali, non c’è distinzione di ruoli, un’unica uniforme che sembra più quella di un astronauta che di un operatore sanitario. Se non fosse per il nome che ci scriviamo sulla tuta prima di entrare non ci riconosceremmo.

Entro nella prima stanza e gli occhi, unica parte visibile della mia persona, si incrociano con quelli di una aderente del Movimento dei focolari ricoverata da noi. Subito mi accoglie con un sorriso e distoglie lo sguardo dalle pagine che stava sfogliando. «Ti stavo aspettando». Tutti i giorni passo a trovarla come faccio con tanti altri anche se non sono miei pazienti. La solitudine a volte è peggio dell’immobilità. Lei mi racconta tante cose delle letture spirituali che le riempiono l’anima e che ha bisogno di condividere. È nata una profonda amicizia e abbiamo cominciato a scambiarci la vita. Prima di uscire dalla sua camera le dico che andrò a dedicarmi agli altri pazienti animato da Gesù presente fra noi. Lei è felice e mi accompagna con la sua preghiera.

Mi aspetta una signora molto debilitata e ancora dipendente da alti flussi di ossigeno. Persona con la depressione di chi ne ha passate tante nella vita. Iniziamo a lavorare insieme. Lei dopo un po’ mi guarda abbozzando un leggero sorriso e mi dice: «Sei l’unico a trattarmi così». «Perché dici questo» rincalzo io. Si ricordava che il giorno prima aveva avuto una brutta giornata e io avevo fatto di tutto per sollevarle il morale. Alla fine le ho assicurato la mia preghiera. Lo sguardo si fa solenne e aggiunge: «Sentirsi dire da una persona sconosciuta che pregherà per me mi ha riempito il cuore». Ha recepito con i sensi dell’anima il mio amore. Per me era Gesù Abbandonato che mi rispondeva e rendeva sacro quel momento.

Esco e incrocio i miei colleghi che mi cercano. «Su, svelto. Dobbiamo raggiungere un tuo paziente molto grave perché i famigliari lo vogliono assolutamente vedere». Abbiamo un tablet per le videochiamate. Io sapevo che questa persona non voleva farsi vedere così dai parenti. Forziamo la mano. La chiamata parte e gli sguardi improvvisamente si incrociano. La moglie e i figli con urla festose incoraggiano ad andare avanti. Lui coperto da una maschera collegata ad un respiratore automatico non può rispondere. Due lacrime solcano il suo viso. Allora allontaniamo il tablet in modo che lui possa salutare con la mano. Era felice di aver potuto comunicare. I famigliari non sapevano come ringraziarci. Io mi fermo col paziente e gli dico che aveva fatto un grande atto d’amore. I suoi famigliari ora erano contenti. Il giorno dopo non ci sarà più. Trasferito in terapia intensiva e intubato. Abbiamo preso l’ultima occasione.

Torno dagli altri pazienti Una stanza con due uomini in fase di miglioramento. Per rendere meno noiosa la riabilitazione e per colmare anche il vuoto relazionale li faccio lavorare insieme con esercizi che loro svolgono attivamente. Tra una battuta e l’altra i due stanno diventando amici in un clima quasi di gioco pur nella drammaticità della situazione. Poi li alzo in piedi uno alla volta. Uno lavora e l’altro riposa. Bellissimo vedere come si incoraggiano a vicenda. Questo clima sereno contagia anche gli infermieri che entrano in stanza. Nascono rapporti. Passano anche i miei colleghi fisioterapisti per chiedermi se ho bisogno di aiuto ed entrano anche loro in questo gioco. Ci lasciamo e dico loro come in tante altre occasioni: «Questa è la stanza più bella dell’ospedale».

Foto Marco Alpozzi/LaPresse

Proseguo il mio giro e incrocio il nome di un sacerdote che mi avevano segnalato. Entro e lo trovo sopito in ventilazione meccanica e con notevoli dosi di ossigeno. Lo chiamo e si sveglia ma non è in grado di esprimersi. Allora parlo io e gli porto saluti e messaggi da tante persone. Lui fa cenno con la testa e alza le braccia con le mani giunte. Resto colpito. I sacerdoti sono abituato a vederli sull’altare, a dirigere la parrocchia, a fare prediche. Li invece capisco la grandezza del sacerdote che unito a Gesù sulla croce celebra la sua Messa e gli dico dal profondo del cuore che è importante la sua presenza in quei reparti sofferente tra i sofferenti. Un sacerdote unito a Gesù crocifisso che condivide la precarietà e le debolezze degli uomini.«Oggi stai facendo a me e a tutti noi la tua più importante omelia». Il don non smetteva di guardare al cielo e di agitare le mani unite in segno di risposta alle mie parole.

Esco con le lacrime agli occhi e proseguo il mio giro passando di stanza in stanza. A volte riesco a fare un buon lavoro da un punto di vista fisioterapico e altre volte non posso far altro che dare un po’ d’acqua o acquagel, raccogliere il pulsante per chiamare in caso di necessità, sistemare meglio il letto, aggiustare una maschera per l’ossigeno, fare una carezza, dare una parola di incoraggiamento.

Siamo arrivati alla fine del turno, ma c’è ancora tempo per una videochiamata. Vado da un simpatico vecchietto che mi aspetta con grandi aspettative. «Allora hai voglia di vedere i tuoi figli? Sei pronto?». La gioia sprizza dai suoi occhi. Parte il collegamento ma l’emozione sia da una parte che dall’altra è così forte che nessuno riesce a parlare. Allora mi siedo in fianco al paziente, lo abbraccio con una mano e con l’altra sostengo il tablet. Mi inserisco nella conversazione che prende vita. Resto coinvolto in un gioco d’amore familiare che mi riempie l’anima. I ringraziamenti non finiscono più. Ma devo chiudere. Tante sono le famiglie che hanno chiesto questo servizio.

Esco dall’ospedale esausto . I dispositivi che dobbiamo indossare sono difficili da tenere per tante ore. Non traspirano e tengono molto caldo. Si va in carenza di ossigeno e si fa fatica a respirare. Ma sono felice perché all’interno dei reparti covid faccio una vera esperienza mistica. È Gesù nel fratello che aiuto. E’ l’amore di Dio che vedo tra pazienti e tra operatori sanitari a darmi gioia. È l’Abbandonato che dà senso a tutto quel dolore ad attirarmi a sé.

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