Eremiti nella Taiga

Nelle inaccessibili foreste della Siberia occidentale una straordinaria e commovente vicenda umana
Taiga

Situata nella Siberia occidentale con una superficie di 61.900  chilometri quadrati e una popolazione di circa 600 mila abitanti, la Chakassia (o Khakassia) è una repubblica autonoma della Federazione Russa, ricca di giacimenti di ferro, carbone e tungsteno. La capitale Abakan (160 mila abitanti), sul fiume Jenisei, è capolinea di una diramazione della ferrovia transiberiana. Notevole mercato di prodotti agricoli e zootecnici, può vantare anche buone industrie alimentari, meccaniche, tessili e del legno. Bellissima la cattedrale della Trasfigurazione, tutta bianca con le caratteristiche cupole dorate a cipolla.

Non a caso accennavo alle industrie del legno. Tutta la materia prima proviene infatti dalla taiga, l’immensa foresta di conifere e betulle che ricopre quasi totalmente le regioni sub-artiche boreali dell’Eurasia e dell’America, costituendo un terzo della massa forestale mondiale. E proprio in queste latitudini desolate, si è svolta una trentina di anni or sono una vicenda assolutamente fuori dell’ordinario, descritta poi dal giornalista e scrittore russo Vasilij Peskov nel suo libro Eremiti nella taiga.

Per puro caso, nel 1978, un gruppo di geologi sovietici in missione nella taiga s’imbatté in una catapecchia vicino ad un ruscello, da cui sbucò fuori una figura di antico vegliardo vestito di una veste plurirammendata in tela di sacco. Non era solo. Con lui era un intero nucleo familiare, in non migliori condizioni. I Lykov, una famiglia di “vecchi credenti russi”, appartenevano ad una setta che, nel 1600, aveva rifiutato la riforma religiosa dello zar Pietro il Grande: non volendo riconoscere né il governo, né le sue manifestazioni civili – documenti, denaro, servizio militare – alla fine degli anni Trenta si erano rifugiati su quelle montagne presso l’alto corso del fiume Abakan, a 250 chilometri dal più vicino centro abitato, rimanendo segregati per più di quarant’anni, senza alcun contatto col resto del mondo.

Al momento della “scoperta”, i superstiti – il padre ottantenne e quattro figli, due maschi e due femmine – apparivano quasi dei primitivi e vivevano al limite delle possibilità di sopravvivenza umana, se si pensa che affrontavano i terribili inverni siberiani, lunghi anche dieci mesi e con temperature minime sino a – 45°, facendo il fuoco con la selce e privi di sale e pane. E tuttavia sapevano leggere e scrivere, sia pure negli antichi caratteri dello slavo ecclesiastico appreso dai libri sacri in un linguaggio a un tempo sacerdotale e infantile. Evidente che le  scoperte del secolo XX fossero al di là della loro comprensione.

Col suo racconto, avvincente come pochi, Vasilij Peskov fa rivivere la sorpresa dei geologi di fronte a questi autentici “fossili viventi”, con lingua, usanze e reazioni psicologiche proprie di epoche passate, come pure le varie fasi attraverso cui, superata l’iniziale diffidenza, gli “eremiti” fecero amicizia con essi e con altri che si recavano, di tanto in tanto, a visitarli, fornendoli di doni d’ogni genere per aiutarli a sopravvivere; doni che venivano accettati con grande dignità e solo se non recavano tracce di lavorazione industriale.

Non che essi fossero del tutto indifferenti a qualsiasi suggestione del mondo moderno. Ad esempio la figlia più giovane, Agaf’ja, accettò persino di affrontare viaggi in aereo e in treno per andare a  conoscere i parenti russi; ma tutti continuarono a rifiutare di rientrare nel mondo, trincerati nella loro rigidissima fede che, pur spingendoli in un drammatico vicolo cieco, li aiutava tuttavia a sopportare la lotta per l’esistenza. Eppure, malgrado le differenze abissali, un ponte di stima e rispetto reciproco si tese tra i religiosissimi Lykov, rimasti “puri” a prezzo del più totale isolamento, e i rappresentanti atei della moderna società tecnologica.

E appunto della storia di questa amicizia, che alla fin fine rese migliori gli uni e gli altri, parla questo libro. All’epoca della sua pubblicazione, quattro dei protagonisti – il vegliardo Karp e i figli Dmitrij, Savin e Natal’ja – non erano più viventi. Quale sarebbe stata la sorte dell’ultima dei Lykov? La cinquantenne Agaf’ja rimase infatti fedele alla consegna di non abbandonare l’universo splendido e tremendo che l’aveva vista nascere, fatto di immense foreste vergini e fiumi di cristallo, orsi, lupi, alci, fuori e frutti della taiga.

Bella figura questa donna: da quasi selvaggia e apparentemente un po’ tocca quale apparve nei primi incontri, progressivamente mutò, rivelando doti umane e spirituali in anni di contatti con i suoi amici del mondo: tirocinio necessario ad affrontare l’ultima e più terribile tappa: quella di una sconfinata solitudine.

A questa fragile creatura nella sua izba sperduta andò il pensiero di Leskov mentre, in una sera d’autunno, scriveva la conclusione del suo racconto: «Cerco di immaginare cosa potrà avvenire ora laggiù, in quelle montagne selvagge. Il fiume non è ancora gelato, gorgoglia fra le pietre nella notte di luna. E la taiga è silenziosa. Fra gli alberi brilla una finestrella. Nessuno guarda fuori. Chi abita lì dentro recita le preghiere davanti alla candela, qualsiasi cosa accada non l’udrà nessuno, solo le capre si metteranno a belare nella stalla, il cane abbaierà… L’Orsa maggiore veglia sulle montagne. Agaf’ja la chiama la costellazione dell’Alce, i mongoli la chiamano Carro dell’Eternità. Nell’universo l’uomo è solo una pagliuzza. Ma sulla terra vuole la felicità, gioie grandi e piccole. Non a tutti la sorte sorride. Alla bambina Agaf’ja, nata nel 1944, laggiù, sul fiume Erinat, la sorte ha riservato una solitudine da cui non fugge – non può e non vuole».

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