Dopo lo sgombero dagli scogli di Ventimiglia

I migranti: «Siamo stati riconosciuti come persone, con un nome e una storia». Gli attivisti: «Nonostante l'epilogo, non è stata una giornata triste, non è finita un'esperienza di fraternità». Il ruolo del vescovo
migranti

Ventimiglia ha vissuto ancora un’altra giornata densa di emozioni per tutti i cittadini, sia per quelli che hanno voluto lo sgombero del Presidio Noborders, sia per quelli che non lo volevano. La cronaca è quella dei giorni scorsi e ieri una nuova manifestazione ha richiamato l’attenzione della popolazione riguardo la questione infinita dei profughi che sono qui “parcheggiati”. Dopo che le forze dell'ordine hanno sgomberato con la forza il presidio illegale dei Balzi Rossi a ridosso del confine con la Francia, la tensione resta sempre alta.

 

«Quello che abbiamo ricevuto da questa esperienza è un punto interrogativo, la rimessa in discussione di che cos’è che ci rende umani, come possiamo rendere umane le nostre leggi e i nostri diritti, oltre ogni retorico garantismo legale. Abbiamo capito che ogni distinzione tra migranti, politici, ecc. è solo un altro modo di costruire frontiere, perché quando riconosciamo ai migranti lo statuto di rifugiati non stiamo facendo altro che riconoscere quello che sono, cioè guardarli per quello che sono loro di per sé, uomini in fuga da terre impossibili alla vita umana. Uomini spinti dal più elementare istinto umano quello della conservazione della vita. Arrivano da noi con i loro confini, cioè la loro cultura, i loro vissuti. Il colore diverso della pelle, un’altra umanità. E qui possono accadere due cose: si scontrano con i nostri confini − e vengono fermati alle frontiere −, o si incontrano con i nostri confini e nel reciproco superamento dei propri limiti avviene l'integrazione, le frontiere del pregiudizio crollano e una nuova umanità nasce nel rispetto che mantiene la differenza».

 

È quanto ci dicono gli abitanti della città di confine che in questi mesi hanno assistito queste persone in mille modi, dando loro cibo, vestiti, aiuti economici e ospitalità. Nella “bolla”, come veniva chiamato il campo abusivo, convivevano immigrati e ragazzi dei centri sociali arrivati dall’Italia e dalla vicina Francia. Nella bolla la comunità black and white collettivamente prendeva decisioni sulla gestione della quotidianità, sulle azioni da portare avanti, sulle dichiarazioni da fare ai giornali, sugli spazi politici da aprire per sbloccare la situazione a livello internazionale.

 

L'ascolto attento delle esigenze e dei desideri di tutti era la base delle regole di vita che il campo si era dato. La possibilità di esprimere la propria volontà e di essere ascoltati e agire di conseguenza è ciò che ha restituito dignità agli "scebab" come amavano farsi chiamare i migranti.

 

«Siamo stati riconosciuti come persone, con una volontà, dei desideri e dei sogni. Con un nome e una storia. Fuori della "bolla" siamo un problema, veniamo spostati da un luogo all'altro senza che ci venga spiegato perché, o dove ci stanno portando, siamo oggetti e non soggetti».

 

Un gruppo di persone in piazza ci spiega che i «migranti, con la loro presenza qui, ci hanno "costretto" a riflettere. Confrontandoci con quanti non capivano le ragioni dell'accoglienza e del sostegno alla loro causa o addirittura hanno intrapreso azioni contro la solidarietà, come lo sgombero, in nome del ripristino della legalità, dell'immagine della città e del danno economico alle sue attività turistiche, o hanno diffuso menzogne su volontari e associazioni coinvolte, abbiamo sentito sempre più che l'individualismo egoistico è la radice fondamentale del problema degli immigrati, lo genera come un suo prodotto. Condividendo la vita del campo abbiamo fatto l'esperienza della diversità come risorsa che fa crescere l'umanità in umanità, abbiamo vissuto l'altro come un'opportunità per essere di più».

 

Anche il Vescovo di Ventimiglia, Mons. Suetta ha avuto tanti incontri personali con i noborders, in occasione della sua visita sugli scogli, nella mediazione che ha consentito lo sgombero. Bello anche quanto hanno fatto gli attivisti: consapevoli del fatto che la resistenza messa in atto sugli scogli non era la loro ma dei migranti, nella logica della reciprocità e per la tutela del più debole, hanno chiesto esplicitamente alle forze dell'ordine di non identificare i migranti, di accompagnarli al campo della Croce rossa e di metterli sotto la loro tutela, senza nessuna azione che avrebbe potuto pregiudicare il loro diritto a chiedere lo statuto di rifugiati nel paese in cui avrebbero potuto arrivare. Questo è stato concesso.

 

Tutti gli attivisti, italiani ed europei, sono stati portati in questura ed identificati. Hanno ricevuto una denuncia per occupazione di suolo pubblico, furto d'acqua ed elettricità. Alcuni tra loro anche fogli di via o restrizioni alla circolazione sul territorio. Un carico giuridico ed economico non indifferente; hanno dato la vita per amore dei loro fratelli.

 

«Nonostante l'epilogo non è stata una giornata triste, non è finita un'esperienza, si è evoluta, come ha auspicato il vescovo. Si riparte con un nuovo inizio e cioè la proposta concreta di un laboratorio permanente sull'immigrazione in cui dissipare le paure ed accorciare le distanze per fronteggiare al meglio le future emergenze. E nei tempi tranquilli far crescere la fraternità».

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