Certe notti di Ligabue

100 opere di Antonio Ligabue, genio tormentato, originario della Svizzera tedesca, ma che a Gualtieri, sulle rive del Po, visse fino alla morte, nel 1965, dopo essere stato espulso dal Paese natale nel 1919. Una mostra su una delle figure più interessanti dell’arte del Novecento
Mostra Ligabue

Certe notti oltre ad essere un brano dell’omonimo cantante, il Luciano contemporaneo, fornisce una suggestione, per quanto solo esistenziale e visiva per una possibile chiave interpretativa dei cieli dipinti dal pittore Antonio Ligabue.

«Vidi allora come dipingeva ‒ racconta Marino Mazzacurati, il critico che lo “salvò” accogliendolo a casa sua nel freddissimo inverno del 1928 ‒: il primo colore che usava era l’azzurro del cielo».

I cieli di Ligabue sono sempre lo sfondo su cui si cala la scena, a volte solo intravisti come in Caccia grossa del 1929, a volte potenti ombre nere come in Cavalli imbizzarriti del 1948 su cui si animano coloratissimi animali di tutte le specie oppure sono a contorno di decine di autoritratti di amarissima poesia.

È un cielo ferito dalla notte, dalla tempesta, dai fulmini, come spesso sono insanguinati, uccisi, feroci, feriti, gli animali spesso colti nel momento in cui stanno per piombare sulla preda agognata.

Ferite evidenti anche negli autoritratti. «Sono io l’artista ‒ dice Ligabue ‒ e sono persino capace di rappresentare me stesso, pur segnato, come potete vedere, dalle ferite della vita; anche così voglio riaffermare la mia dignità di persona umana».

 

 

Una natura e una umanità ferita, disorientata, come la vicenda di Antonio Ligabue, che dal 1899 al 1965 attraversa il secolo breve. Scartato, umiliato, solo, non riconosciuto né come persona, né come artista. Anche lui è un uomo, che si trova solo, senza un orizzonte di senso condiviso.

Nei suoi cieli plumbei, grigi, in qualche modo si riflettono non le sue personali sconfitte, delusioni, tormenti, ma l’intera notte che avvolge il cielo della cultura europea. Non è un ingenuo Ligabue, né un lucido folle, ma ha assimilato, interiorizzato quella natura che tanto osservava, quegli animali che «capiva cosa hanno dentro». In loro trova, come in Segantini, delle «perenni verità ‒ scrive il critico Sandro Parmiggiani ‒ anche le più tragiche e drammatiche, con i ritmi vitali del reale e con la visione dell’essenza del destino degli uomini».

È un percorso inverso. Non la sua tragica vita riflessa nelle opere, ma dalle opere zampillano brandelli di verità presenti della vita.

 

 

Stesso tragico destino colto nelle due crocifissioni presenti nella mostra. Un olio su tela senza data, e un acquaforte del 1960.

Anche qui, oltre l’abissale differenze tra i due dipinti, colpisce il cielo nero che avvolge tutta la scena, quasi la inghiotta, quasi un nulla senza senso che solo “comprende” la realtà. I cieli sono dettagli ininfluenti, non sono, anche qui, come nelle scene di animali e negli autoritratti, il centro dell’opera, ma rappresentano il costante essere della condizione umana che ben si fonde con la perenne, costante, sensazione di angoscia, desolazione, smarrimento presente nell’uomo e nella natura.

Nulla, dolore, male di vivere, tragedia, dubbio, separazione ben compreso e vissuto dall’uomo della croce «luce stessa della conoscenza». «L’Essere che si fa, ‒ scrive Giuseppe Maria Zanghì in Gesù abbandonato maestro di pensiero ‒ per amore, non‒essere, per fare il non‒essere Essere».

Stessa ricerca di senso ben presente in Ligabue. «Ci sono in lui ‒ spiega Sandro Parmiggiani ‒ l’ansia, l’ossessione di dare un corpo compiuto e unitario alle persone, agli animali, alla natura, alle cose del mondo, anche quando si confrontano in una lotta mortale, per ritrovare un’unità perduta».

 

Dall’11 novembre 2016 all’8 gennaio 2017 le sale del Complesso del Vittoriano – Ala Brasini di Roma accolgono la mostra Antonio Ligabue (1899-1965)

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