Cavalieri delle parole

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La ricordate? Era una canzone degli anni Settanta: Mina e Alberto Lupo. Lui, la voce profonda e suadente, insisteva in un serrato parlato: “Tu sei come il vento che porta i violini e le rose… Ascoltami… ti prego… ti giuro”. Lei, con il suo ineguagliabile canto, rispondeva con un tagliente: “Parole, parole, parole, parole parole soltanto parole, parole tra noi”. Parole, parole… pensavo a quella canzone, dalla quale le parole uscivano alquanto malconce, soltanto parole, e mi venne in mente un libro, anzi un libretto, di quelli però che lasciano il segno. Ricordavo il posto nella libreria dove l’avevo messo. Era lì: Il canto della libertà. Di Abraham Heschel, che è stato uno dei massimi pensatori ebraici del secolo scorso. Cercai quelle pagine: “Uno dei sintomi più evidenti della crisi generale che domina oggi nel nostro mondo è la mancanza di sensibilità alle parole”. Proprio così, assentivo tra me e me. Centrato in pieno! Viviamo in un epoca in cui, subissati da parole – dalla politica alla pubblicità al commercio – abbiamo perso la consapevolezza del loro valore. Se ne banalizza la sacralità; riducendole a puro strumento mercantile. Continuo a leggere Heschel: “Oggi usiamo le parole come giocattoli. Dimentichiamo che sono ricettacoli dello spirito (…) Abbiamo perso il rispetto riverenziale per le parole (…) la consapevolezza del miracolo delle parole, del mistero delle parole (…) Le parole sono diventate cliché, oggetti di abuso totale. Hanno cessato di essere impegni”. Richiusi il libro. Nella mente scattò un link, un balzo indietro nella storia. A quel Marco Attilio, che, come ci ha tramandato Cicerone, “partì verso il supplizio, per tenere fede alla parola data al nemico”. Anche sant’Agostino lo pone come esempio, anteponendolo agli eroi romani che per orgoglio o per vergogna si erano suicidati. La sua vicenda la ricordavo bene, nell’illustrazione del sussidiario delle elementari. Attilio Regolo, sciogliendosi dalle suppliche del senato e dall’abbraccio dei familiari, dopo aver compiuto la sua missione, se ne tornava in Africa, per mantenere fede alla parola data al ne- mico cartaginese, che lo ripagò facendolo rotolare giù per una china rinchiuso in una botte irta di chiodi. Erano tempi in cui la parola aveva un valore sacro. Quando gli accordi erano siglati da patti verbali, tanto che la parola data dal pater familias veniva definita sacramentum. E la fides, fiducia intesa come vincolo della parola data, era uno dei princìpi fondamentali del diritto romano. Erano altri tempi, effettivamente. Nei quali Svetonio poteva affermare tranquillamente che “anche gli dei stanno di solito dalla parte di quelli che vedono mantenere la parola data”. Se si sfoglia la Bibbia, subito, nelle prime pagine ci si trova di fronte alla grandezza della parola. Lì domina un maestoso, ripetuto: “E Dio disse”. Disse; e il mondo avvenne. Molte pagine più avanti, poi, nella Bibbia cristiana, Matteo racconta che, “venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati”. Con la sola parola, Gesù di Nazareth guariva e salvava vite perdute. Tanto grande è il valore che il testo sacro dà alle parole, che poco più in là ci si imbatte in una sentenza mozzafiato: “io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio”. Plinio, nell’autunno del 112, inviando a Roma dalla Bitinia un resoconto sui cristiani, ne metteva in luce alcune caratteristiche: “È una folla di gente di tutte le età, di tutte le condizioni… che si impegnano a non perpetrare crimini, a non commettere né ruberie né brigantaggi né adulteri”, sottolineando che: “non vengono meno alla parola data”. Se si guarda poi alla storia del Medioevo, si rimane un po’ sbalorditi di fronte al fatto che un’intera società abbia potuto crearsi e durare mille anni basandosi solo sul fragile legame della parola. Un’intera piramide gerarchica era strutturata sul giuramento al capo. Tanto che nel Medioevo l’insulto più sanguinoso era fellone, cioè spergiuro. Anche la Magna Charta inglese esigeva che il conte mantenesse “sincera e perfetta fede e verità nella sua parola” verso tutti gli uomini. È in quest’ambiente culturale che nasce il mito del cavaliere, di cui i poeti medievali ci tramandano l’immagine idealizzata del puro di cuore, che difende i deboli, rifiuta l’inutile violenza, ha pietà per l’avversario battuto, onora la donna, disprezza ogni sorta di tradimento, e sempre mantiene fede alla parola data. La mediazione culturale operata dai vescovi feudatari con l’invenzione della cavalleria ha creato l’immaginario dell’uomo per bene che è rimasto vivo fino all’ottocento: colui che manteneva la parola, che non faceva del male a nessuno, che non avrebbe fatto passare un pellegrino senza dividere ciò che aveva, poco o tanto che fosse. Nella nostra epoca, da un lato, si dà enorme importanza alle parole. Vengono selezionate con sofisticata attenzione le parole che trasmettono un messaggio pubblicitario, finalizzato alla vendita, o uno slogan politico. Seguendo spesso il consiglio del Machiavelli, il quale sosteneva che il po- litico può apparentemente calpestare la parola data in vista di un fine etico più alto. Imbarcandosi però in un percorso alquanto scivoloso, nel quale diventa difficile orientarsi. Ed anche, secondo le sempre più numerose prescrizioni del “pensiero positivo” oggi le parole vengono prescritte e somministrate come farmaci, in una o più dosi quotidiane di “io mi voglio bene, mi accetto “. Suggestioni che, pur utili in alcuni casi, hanno tutti i limiti dei prodotti preconfezionati: l’effetto non è paragonabile a quello delle parole trovate dalla persona stessa, che scaturiscono dal ritornare con le sue emozioni nella situazione traumatica passata e ancora presente e rappresentano il suo modo di uscirne. Ma da un altro lato, mai come oggi la parola data sembra essere insignificante. Non sono più molti quelli che si ritengono vincolati alla fedeltà matrimoniale per la parola scambiata in un giorno di festa particolare. Paladino della parola, Giovanni Paolo II, si erge contro questo relativismo affermando che se “i cristiani uniti nel matrimonio hanno il diritto di aspettarsi dai sacerdoti il buon esempio e la testimonianza della fedeltà alla vocazione fino alla morte”, è proprio la coltivazione dei valori morali tra i quali il valore della fedeltà alla parola data, che costituisce la strada irrinunciabile per un avvenire migliore delle famiglie. Anche nella comunicazione giornalistica le parole, scelte per il loro effetto – per colpire e stupire – più che per il contenuto etico e il tentativo di avvicinarsi alla verità, non godono di migliore salute. Anna Maria Ortese scriveva a proposito in una lettera: “La cronaca è come la pioggia: come commentare la pioggia? Mi riferisco alla cronaca peggiore – che è il vero riflusso nel costume della fine storica di un paese. Quando si uccide come si mangia, con tranquillità. Questa tranquillità è il vero male, ed è sostenuta da una cultura che non sa cosa significhi formare – ma solo informare”. Già… ero partito da Attilio Regolo, guarda dove sono finito! Il libro di Heschel lo tengo ancora tra le mani. Ne sfoglio di nuovo le poche pagine. Gli occhi si posano su alcune frasi. Che penso abbiano l’autorità e la forza di un’autentica “investitura” per moderni cavalieri della parola: “Dobbiamo imparare ad affrontare la grandezza delle parole (…) dobbiamo imparare a stabilire il giusto rapporto tra il cuore e la parola che stiamo per pronunciare. (…) La purificazione del linguaggio resta perciò uno dei compiti principali della disciplina teologica. Essa deve iniziare con il sottolineare fortemente la sensibilità alle parole e porsi l’obbiettivo di santificare il discorso umano”.

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