Bahrain. Le elezioni piccole piccole

Al voto il piccolo regno del Golfo persico che, nonostante le denunce delle associazioni di difesa dei diritti umani, ha fatto qualche passo avanti nella “democratizzazione” del Paese rispetto alla durezza dei vicini

Nella penisola arabica, regione dominata da un dispotismo di origine wahhabita e salafita, seppur lanciate in una corsa sfrenata al capitalismo più gretto e spietato, alcune monarchie conoscono elezioni a ritmo regolare e hanno dei parlamenti più o meno funzionanti, come il Kuwait e il Bahrein.

Sabato 24 novembre, per la seconda volta dalla grande rivolta sciita del 2011, i cittadini del Bahrain votano per l’elezione di 40 degli 80 deputati, sapendo che gli altri 40 vengono nominati direttamente dal re Hamed ben Issa al-Khalifa con atto insindacabile. I candidati sono 293, tra i quali i 365 mila cittadini del Bahrain ammessi al voto (quasi tutti sunniti su un totale di un milione e mezzo di residenti totali) sceglieranno i loro rappresentanti.

Numerose sono le denunce per la falsità delle elezioni, visto che la stragrande maggioranza dei candidati sono filo-governativi, e considerata la battaglia senza quartiere avviata dal governo di Manama sin dal 2011 per mettere a tacere l’opposizione politica. Dopo le primavere arabe, che in Bahrain avevano conosciuto una certa effervescenza, gli occidentali avevano sperato in una progressiva democratizzazione del Paese, malgrado tutto il più “liberale” dell’intera penisola. Ma l’illusione era durata pochi mesi, vista l’ondata di arresti che nel 2011-2012 aveva falcidiato tutti coloro che volevano avviare un ricambio nella politica del Bahrain.

A conferma di ciò, Sanam Vakil, noto ricercatore della Chatham House, esperto della politica e della socialità del Bahrain, ha dichiarato che «la gente sperava che queste elezioni rappresentassero un’opportunità per il governo di ripristinare un processo politico legittimo, ma non sarà così». Tra le ultime condanne, all’ergastolo, quella di tre personalità dell’opposizione sciita, accusate di essere in combutta con i grandi nemici del Qatar, tra cui Sheikh Ali Salmane, leader di al-Wefaq, uno dei principali movimenti di opposizione sciolto sin dal 2016.

Tuttavia lo Stato del Bahrain, piccolo regno di 765 km quadrati, governato dalla dinastia sunnita dei Khalifa mentre la popolazione è al 65% sciita, fa figura di voler essere più flessibile di altre monarchie del Golfo persico in materia del rispetto dei diritti umani. Per fare un esempio, la Chiesa cattolica ha una certa libertà di azione nel Paese, che ha concesso recentemente la costruzione di un paio di chiese nel piccolo territorio, fatto di enorme importanza per i tanti cristiani dell’intera regione, che si spera possa influenzare di qui a qualche anno anche altre monarchie del Golfo.

Ed è pure vero che esiste una seppur minima libertà d’opinione, ma a condizione di non voler mettere in dubbio la governance della dinastia al potere. È vero che Amnesty International ha denunciato il fatto che «le libertà di espressione, associazione e assemblea sono assenti in un contesto in cui la partecipazione civica è limitata a coloro che già supportano pienamente l’ordine politico esistente», e tuttavia dopo i risultati di queste elezioni, si potrebbe scoprire che 5 o 6 deputati eletti appartengono alle file dell’opposizione, seppur addomesticata. Nulla? Certo, non molto, ma comunque qualcosa in una regione in cui ogni minima contestazione viene vista come un delitto di lesa maestà.

L’opposizione è per il boicottaggio delle elezioni, e denuncia la parzialità dei 231 osservatori della società civile che sono stati selezionati per monitorare i seggi elettorali, essendo membri di associazioni collegate in un modo o nell’altro al governo del Bahrain.

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