Rabbia e politica fra mito e storia

L’affascinante viaggio proposto dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk nelle forme che ha assunto l’ira, dall’epoca classica ai tempi moderni, dalle periferie alla rivolta di Capitol Hill
rabbia
(Foto: Pexels)

Canta, o dea, l’ira di Achille figlio di Peleo, l’ira funesta che ha inflitto agli Achei infiniti dolori, che tante anime forti ha gettato nell’Ade. La forza evocativa di questo verso omerico – è l’inizio dell’Iliade – sembra non conoscere il logorio del tempo, ponendoci interrogativi ed inquietudini su un sentimento, l’ira, che allora come oggi irrompe nelle nostre vite.

Come un immaginario filo rosso, l’ira sembra legare le sorti di Troia (Ilio) con il disagio delle banlieue francesi, la crescente emarginazione sociale, lo sviluppo di fenomeni terroristici, la violenza nell’assalto a Capitol Hill e le scelte elettorali delle imminenti elezioni europee.

In questa prospettiva è davvero affascinante il viaggio che il filosofo tedesco Peter Sloterdijk ci propone nel suo Ira e tempo, pubblicato da Marsilio. La sua esplorazione delle culture e delle forme che ha assunto l’ira dall’epoca classica ai tempi moderni offre molte chiavi di lettura per comprendere il nostro presente. L’ira – al pari di altri sentimenti  “timotici” affini, come il coraggio, l’orgoglio, il desiderio di affermazione, il risentimento – è una componente imprescindibile nell’universo degli affetti interpersonali e politici.

L’esito dell’ira, o se vogliamo chiamarla rabbia, è spesso la guerra, che infligge “infiniti dolori” anche se fin dall’epoca classica ne vengono celebrati soprattutto gli eroi. Per noi moderni non è facile entrare nell’universo di Omero dove guerra e fortuna sono tutt’uno e senza il favore degli dei ogni impresa risulta sicuramente fallimentare. È singolare poi il fatto che la vittoria greca sui troiani sia ascrivibile all’astuzia di Ulisse, quasi eclissando l’ira e la furia di Achille. Tuttavia l’ira dell’Iliade racconta di una passione, di un’energia vitale “dono degli dei” che necessita un orientamento, e nel poema omerico non può che essere la battaglia.

Con l’avvento delle città (le polis greche) c’è la necessità di addomesticare l’ira furiosa e così la sua connotazione diventa “ira retta”, riconosciuta come legittima difesa da offese ed ingiustizie. Aristotele afferma che l’ira va adoperata «non come un condottiero ma come un soldato». Pensiero affine a quello dei padri della Chiesa, che combattono l’orgoglio – parente stretto dell’ira – nella forma di superbia, come azione di consapevole violazione della volontà divina.

Nella modernità, Hegel richiama il bisogno di riconoscimento, e considera l’ira come esito del rifiuto degli altri nel riconoscerci. Come non vedere in questa posizione hegeliana la rabbia e il risentimento che emergono in molti episodi rabbiosi del nostro presente? E allo stesso tempo, guardare a come politica e religione abbiano tentato di incanalare questo sentimento?

Sloterdijk, questa la tesi centrale del suo lavoro, è persuaso che siano scomparsi i grandi contenitori trasformativi – le “banche dell’ira”– che contenevano la sofferenza e il risentimento collettivo:  in particolare la religione, che procrastinava all’aldilà il saldo delle sofferenze attuali, o le grandi utopie rivoluzionarie – il comunismo in primis –, che promettevano un cambiamento favorevole a perdenti ed esclusi.

Il problema è che l’”ira libera” del nostro tempo diventa facilmente terrore e in questo contesto la politica rischia di regredire a polizia, o peggio guerra.

Come uscirne? Sloterdijk è convinto che si debba andare oltre il risentimento, abbandonando quella che Nietzsche chiamava “umiltà in cerca di vendetta”, ovvero lo spirito stesso del risentimento, e riprendendo la realizzazione su un piano globale dei quei principi che John Locke ha formulato nel 1689: diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà.

Il filosofo tedesco si rende perfettamente conto che si tratta di un percorso inedito, che richiede esercizi di nuova comprensione e apprendimento, ma si coglie, in questo pensatore, la necessità di quella che papa Francesco chiamerebbe una «coraggiosa rivoluzione culturale». Se la parola prima dell’Europa è stata “ira” possiamo immaginare altre parole nel nostro orizzonte?

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