Il 56° rapporto Censis sulla Società italiana

Uno sguardo approfondito sulla società italiana scattato dal Censis nel suo Rapporto annuale. Prima parte
(Foto: Pixabay)

Tre anni e quattro crisi profonde: la pandemia, il grande rialzo del costo della vita, la guerra in Europa, i costi dei servizi energetici ti tolgono il fiato e la pace in tutti i sensi e non ci sono soluzioni a breve. Siamo di fronte a sconvolgimenti veloci, inaspettati, a un rimescolamento delle carte e a un rimodellamento delle realtà sociali che impongono soluzioni.

C’è il calo della domanda interna e una trasformazione dei consumi; ci sono troppi bonus, di fatto sussidi che coprono bisogni indistinti e comportano negativi effetti collaterali; la ricerca di una nuova e diversa posizione professionale da parte di tanti giovani, a volte con poca attenzione alla progressione di conoscenze e competenze, annebbia le difficoltà strutturali di inserimento nella vita lavorativa; i flussi di risorse promessi e assegnati dal Pnrr al Mezzogiorno, mai come ora ingenti, chiamano a raccolta capacità di progettazione e responsabilità locali spesso inadeguate per mettere in moto dinamiche di medio periodo e occupazione di qualità.

Grazie allo sforzo individuale il nostro Paese non regredisce, ma neanche matura. Produce stimoli a lavorare, a mettersi sotto pressione, a confrontarsi con le ferite della storia, ma non manifesta una sostanziale reazione: rinuncia alla pretesa di guardare in avanti. Vive in una sorta di assenza di risposta, in attesa che i segnali economici e sociali abbiano consapevolezza della realtà e dei bisogni. La società italiana aspetta di divenire adulta, si affida alle rendite di posizione e di ricchezza, senza corse in avanti affronta i grandi eventi delle crisi globali con la sola soggettiva resistenza quotidiana.

Ma un prolungamento della fase nascosta della vita sociale comporta il rischio di una sorta di masochistica rinuncia, senza forza e ambizione, a ogni tensione a trasformare l’assetto sistemico e civile della nostra società. Una sorta di rifugio nell’egoismo, di avvolgimento a spirale su sé stessa della struttura sociale che attesta tutti a traguardi brevi.

Resta la realtà che l’Italia non cresce abbastanza o non cresce affatto.

Giudicando il fiume non dal suo scorrere lungo l’argine ma solo dalla foce, abbiamo assistito a un proliferare, spesso scomposto, di piani di ogni genere: per la resilienza, per la sicurezza informatica, per il clima e l’energia, per la mobilità elettrica, per l’idrogeno, per la non autosufficienza, per la sostenibilità sociale, solo per fare qualche esempio. Senza, o quasi, dibattito pubblico, senza traguardi e impegni precisi, senza vincoli ai processi e ai soggetti. Lasciando a ciascuno il primato dell’opinione individuale, ogni spinta programmatica è spenta nell’enfasi dell’arrivo e nel rinvio di ogni responsabilità attuativa. Come se la foce dicesse tutto del fiume.

Lo sforzo di autoconservazione, l’istinto a resistere e a conservare convenienze individuali, il contenimento dei doveri di solidarietà, lo scivolamento in basso degli investimenti sociali hanno finito per appiattire tutto sull’esistente; e nulla come la conservazione dell’esistente genera più contraddizioni e diseguaglianze, perché l’individuale adattarsi al mondo smarrisce ogni responsabilità collettiva di futuro.

Lo slogan dell’«uno vale uno» ha lasciato il posto alla competenza degli scienziati, degli strateghi militari, degli economisti dell’energia che, a loro volta, sembra che abbiano liberato il campo, di nuovo, alla politica. La poco feconda Italia che da sempre si arrangia, con le sue patologie strutturali, non può giustificare la rinuncia da parte della classe dirigente a risalire il fiume, remando contro corrente.

Siamo entrati nel post-populismo. Alle debolezze economiche e sociali di lungo periodo, si aggiunge la paura avvilente di essere esposti a rischi globali incontrollabili. Da questo quadro profondamente mutato emerge una rinnovata domanda di benessere e si alzano autentiche richieste di equità che non sono più liquidabili semplicisticamente come «populiste», come fossero aspettative irrealistiche fomentate da qualche leader politico demagogico. La quasi totalità degli italiani è convinta che l’impennata dell’inflazione durerà a lungo, si ritiene che non potrà contare su aumenti significativi delle entrate familiari, tanti temono che il proprio tenore di vita si abbasserà.

La crisi sta intaccando i risparmi per fronteggiare l’inflazione. Cresce perciò il rifiuto verso privilegi oggi ritenuti odiosi, con effetti divisivi: sono insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei dirigenti o le buonuscite milionarie dei manager, le tasse troppo esigue pagate dai giganti del web, i facili guadagni degli influencer, gli sprechi per le feste delle celebrità, l’uso dei jet privati. Ma non si registrano fiammate conflittuali, intense mobilitazioni collettive attraverso scioperi, manifestazioni di piazza o cortei. Si manifesta invece una ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica.

Alle ultime elezioni il primo partito è stato quello dei non votanti, composto da astenuti, schede bianche e nulle, che ha segnato un record e una profonda cicatrice nella storia repubblicana: quasi 18 milioni di persone, degli aventi diritto. In 12 province i non votanti hanno superato il 50%. Tra le politiche del 2006 e quelle del 2022 i non votanti sono raddoppiati (+102,6%), tra il 2018 e il 2022 sono aumentati del 31,2% (quasi 4,3 milioni in più). Per porzioni crescenti dei ceti popolari e della classe media la tradizionale trama lavoro-benessere economico-democrazia non funziona più.

Nell’immaginario collettivo si è accumulata la convinzione che tutto può accadere: il lockdown, il taglio di consumi essenziali (dall’energia al carrello della spesa alimentare), la guerra di trincea o l’uso della bomba atomica. L’84,5% degli italiani è convinto che eventi geograficamente lontani possano cambiare improvvisamente e radicalmente la propria quotidianità e stravolgere i propri destini. Si teme che possa scoppiare un conflitto mondiale o che si ricorra all’arma nucleare, che l’Italia entri in guerra.

È l’assottigliamento tra la grande storia e le microstorie delle vite individuali a generare nei nostri tempi la percezione di rischi che fanno sentire impotenti, al di là di ogni iniziativa di prevenzione alla propria portata, ricorrendo ad esempio alle coperture assicurative. Gli italiani (10 punti percentuali in più rispetto al 2019 pre-Covid) si sentono insicuri. I principali rischi globali percepiti sono: la guerra, la crisi economica, virus letali e nuove minacce biologiche alla salute, l’instabilità dei mercati internazionali (dalla scarsità delle materie prime al boom dei prezzi dell’energia), gli eventi atmosferici catastrofici (temperature torride e precipitazioni intense), gli attacchi informatici su vasta scala.

Quella del 2022 non sembra però un’Italia sull’orlo di una crisi di nervi, segnata da diffuse espressioni di rabbia e da gravi tensioni sociali. Ma i meccanismi tipici di una rampante società dei consumi, che in passato spingevano le persone a fare sacrifici per modernizzarsi, arricchirsi e imbellirsi, hanno perso presa e capacità di orientare i comportamenti collettivi. Prevale piuttosto la voglia di essere sé stessi, con i propri limiti.

Gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici o mettere in pratica le indicazioni di qualche influencer, per vestirsi secondo i canoni della moda, per acquistare prodotti di prestigio, per sembrare più giovani, per sentirsi più belli. Non si è più disposti a sacrificarsi per fare carriera nel lavoro e guadagnare di più. Complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé.

L’89,7% degli italiani dichiara che, pensando alla sequenza di pandemia, guerra e crisi ambientale, prova tristezza e ha la forte tentazione di rimanere passivo. È la malinconia a definire oggi il carattere degli italiani, il sentimento proprio del nichilismo, virus dei nostri tempi, corrispondente alla coscienza della fine del dominio onnipotente dell’«io» sugli eventi e sul mondo, un «io» che malinconicamente è costretto a confrontarsi con i propri limiti quando si tratta di governare il destino.

PRIMA PARTE

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