Vite umane in mare, tra ong e blocchi navali

Il governo Meloni annuncia un decreto destinato a rendere più difficile l’azione di salvataggio in mare delle navi umanitarie. Una questione destinata a far crescere lo scontro sulla gestione dei flussi migratori e sul problema irrisolto dei campi di detenzione dei migranti in Libia. Il caso di don Mattia Ferrari
Migranti archivio. Foto Ufficio Stampa Marina Militare/LaPresse

Come promesso, il 2022 termina con la decisione del governo Meloni di procedere senza tentennamenti a rendere più difficile l’azione di soccorso in mare da parte delle navi delle organizzazioni umanitarie.

La loro stessa presenza in mare, infatti, come ripetuto più volte dagli esponenti della maggioranza, costituirebbe un fattore di attrazione (pull factor) per coloro che cercano di arrivare in Europa attraversando il Mediterraneo ricorrendo, in larga parte, alle organizzazioni dei trafficanti.

Nel decreto annunciato dall’esecutivo si richiede, tra l’altro, alle ong di raggiungere, con il loro carico di migranti recuperati in mare, il porto assegnato dalle autorità italiane nel tempo più breve senza procedere, se non autorizzate, ad operare altri salvataggi. Come riporta l’agenzia Agi, «le navi ong non potranno accumulare più salvataggi in mare prima di raggiungere il porto assegnato. In caso di violazione, salve le sanzioni penali, si applica una sanzione amministrativa al comandante della nave da 10mila a 50mila euro. La responsabilità solidale si estende all’armatore e al proprietario della nave. In caso di reiterazione della violazione si applica la confisca della nave».

«Sono esseri umani e non rifiuti pericolosi», afferma dalle colonne di Avvenire il sociologo Maurizio Ambrosini, facendo notare che, di fatto, nel 2022 le navi umanitarie hanno soccorso «appena l’11,2% delle poco più di centomila persone approdate sulle coste italiane». Il resto riesce ad arrivare con mezzi propri o viene soccorso da altre navi, soprattutto della Marina militare e della Guardia costiera.

Secondo Gianfranco Schiavone dell’Asgi, non si può fare una norma specifica da applicare solo alle navi delle ong e non a tutte le imbarcazioni che sono tenute a rispettare la legge internazionale del mare: «Fatta salva l’esigenza di valutare gli eventuali rischi per la sicurezza della nave, non ci può essere alcun margine di scelta da parte del comandante di qualsiasi nave ad effettuare anche diversi soccorsi qualora nel corso della propria navigazione intercetti più situazioni di pericolo e altre navi non siano in grado di intervenire, né le autorità italiane, salvo incorrere nella commissione di gravi reati, possono ordinare al comandante della nave in pericolo di non effettuare tali soccorsi».

Si annuncia, perciò, un 2023 di forte contenzioso sulla questione delle migrazioni che resta centrale per l’Italia, Paese di frontiera dell’Unione europea. Nel 2017 l’allora ministro degli Interni Marco Minniti espresse il timore del rischio di tenuta democratica di fronte al flusso dei migranti provenienti dalle coste libiche devastate dalle conseguenze del conflitto bellico del 2011.

Il governo di centrosinistra concluse così il memorandum con Tripoli, finanziandone la guardia costiera per intercettare i flussi migratori. Una scelta tuttora fortemente contestata dalle organizzazioni umanitarie anche perché in Libia, soggetta a scontri armati tra fazioni sostenute da differenti attori internazionali, esistono campi di detenzione di migranti che sono dei veri e propri lager, come denunciato dai rapporti Onu.

Secondo Schiavone sono le stesse regole della Ue a impedire che si consegnino i migranti alle navi libiche perché «nessuno può, in violazione del principio di non respingimento, essere sbarcato, costretto a entrare, condotto o altrimenti consegnato alle autorità di un Paese in cui esista, tra l’altro, un rischio grave di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura, alla persecuzione o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti» (art. 4 paragrafo 1, Regolamento Ue n. 656/2014 sulla sorveglianza delle frontiere marittime esterne).

Già in sede di presentazione dei programmi per le elezioni politiche dello scorso settembre era emerso, da parte della coalizione della Meloni, l’apprezzamento della politica di Minniti, ma per cercare di capire la cultura che informa il governo di destra occorre conoscere le tesi espresse dall’ammiraglio Nicola De Felice nel libro “Fermare l’invasione. Le ragioni del blocco navale” che contiene la prefazione della stessa Meloni ed è stato presentato il 6 dicembre da Fratelli d’Italia nel salone del Cenacolo della Camera dei deputati.

Secondo l’alto ufficiale, ora in forza alla riserva della Marina militare e senior fellow del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli, si tratta di prendere atto di ciò che già avviene con l’approvazione della Ue e cioè che «l’Europa ha già dato il suo consenso a quegli stati membri che hanno costruito un muro di filo spinato di chilometri e chilometri per difendere i loro confini contro l’immigrazione».

Allo stesso tempo De Felice fa presente che «Francia e Regno Unito hanno stretto un accordo sulla Manica» che blocca il transito di migranti. Come riporta, infatti, l’Ansa del 14 novembre il patto tra i due Paesi prevede che «i britannici versino 72,2 milioni di euro nel 2022-2023 alla Francia che, come contropartita, aumenterà del 40% le sue forze di sicurezza sulle spiagge da cui partono i migranti diretti in Gran Bretagna: 350 poliziotti e gendarmi in più. Nell’accordo, Londra e Parigi fissano vari obiettivi, fra cui il dispiegamento “di risorse tecnologiche ed umane” fra cui droni sul litorale francese per meglio individuare, sorvegliare ed intercettare le imbarcazioni».

In un’intervista a Il Giornale, l’ammiraglio, che ha ricoperto posizioni di comando in sede Nato, precisa che il blocco navale non deve intendersi «come un blocco di stampo bellico ma un intervento di interdizione navale, mirato al blocco delle partenze dei barconi legati alla tratta degli esseri umani».

Oltre al dispiegamento di navi militari nel Mediterraneo, De Felice propone la creazione di hotspot, centri di identificazione, esternalizzati in terra africana, «finanziati, gestiti e controllati dalle forze europee, in collaborazione con le forze locali».

Ma come sappiamo è proprio il controllo e la gestione di tali centri di smistamento a suscitare forti perplessità per la violazione dei diritti umani quali luoghi di detenzione ed espulsione verso Paesi dove le persone migranti rischiano ritorsioni e la stessa vita.

Nella difesa dei diritti dei migranti arrivano segnali preoccupanti come la vicenda che riguarda don Mattia Ferrari. Il giovane cappellano della ong Mediterranea saving humans, dedita appunto al salvataggio di migranti in mare, ha ricevuto minacce pubbliche da account identificabili, secondo i suoi avvocati, con esponenti della mafia libica.

La procura di Modena non solo ha ritenuto di non dover procedere, archiviando il caso per mancanza di rilievo penale dei fatti denunciati, ma ha anche considerato inevitabile essere esposti a critiche per chi come don Ferrari «porta il suo impegno umanitario (e latamente politico) sul terreno dei social o comunque del pubblico palco – ben diverso dagli ambiti tradizionali – riservati e silenziosi – di estrinsecazione del mandato pastorale – e lo faccia propalando le sue opere con toni legittimamente decisi e netti».

Ciò che colpisce in questo caso, come sottolineato su Avvenire da Marco Tarquinio, oltre alla definizione riduttiva dell’impegno cristiano, la sottovalutazione di minacce che arrivano da «bande armate criminali che occupano con loro membri persino pezzi degli apparati pubblici, e sono dedite tra l’altro all’organizzazione di campi di detenzione per profughi e migranti irregolari che l’Onu ha definito veri e propri “lager” oltre che al traffico di esseri umani».

Il nodo del tipo di rapporto con i Paesi africani costituisce il punto di un possibile dialogo politico e sociale in Italia. De Felice, ad esempio, cita come esempio da imitare il piano italiano di Enrico Mattei, incentrato, negli anni Sessanta, su rapporti equi e di mutuo vantaggio verso un continente ricco di risorse che diventano invece una maledizione e spinta all’emigrazione a causa della logica predatoria delle grandi società transnazionali.

Una base per partire da valori comuni davanti alla questione epocale delle migrazioni che chiede risposte non impaurite o buoniste ma ragionevoli e soprattutto umane.

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