Uno Stato biscazziere e perdente con l’azzardo

La scelta di affidare il settore dell’azzardo legalizzato alle grandi società commerciali si è rivelato un fallimento. Eppure non si vuole cambiare strada. Perche? Un dialogo aperto con Marco Dotti
Sisal

L’Italia è un “caso di studio” a livello mondiale per le grandi società del settore che ne stanno estraendo notevoli profitti. L’azzardo legalizzato produce costi sociali elevati e mette in discussione la ragion d’essere della mano pubblica. Continua il dialogo in forma di intervista con Marco Dotti,  giornalista del mensile Vita e , professore all'Università di Pavia.

Secondo gli imprenditori di Confindustria, le aziende del settore svolgono un “servizio pubblico prezioso” contro il gioco illegale. Senza gli introiti garantiti dalla loro attività, affermano che lo Stato non sarebbe in grado di pagare neanche la Cassa integrazione in deroga mentre loro garantiscono il lavoro a 120 mila persone. Che dire?  

«Lo Stato è come la coperta di Linus. Tutti la criticano – troppo corta, troppo lunga, troppo pesante – ma tutti la vogliono. Alla fine, però, non so se è più lo Stato ad avere bisogno degli imprenditori del settore o gli imprenditori del settore ad aver bisogno dello Stato. Da settembre, le stime sul sommerso nel settore dell’azzardo finiranno nel PIL, e accresceranno in maniera sensibile gli indicatori macroeconomici di crescita: questo mi pare un punto su cui riflettere e di cui tutti dovremmo chieder conto.

L’idea che la progressiva legalizzazione a cui abbiamo assistito dal 2003 – data in cui l’espressione “gioco lecito” entra nel vocabolario giuridico e extragiuridico italiano – sia stata una risposta in termini di offerta legale data dal sistema a una domanda “naturale” di gioco altrimenti intercettata dall’illegale è a mio avviso senza fondamento».

In che senso?  

«La propensione al gioco non è un "dato strutturale dell'italiano medio", come talvolta sentiamo dire. Non cresce sotto gli alberi. Una domanda di questo tipo la crei. Un mercato lo apri, o ti insinui in una nicchia e la fai esplodere. Se però crei un'urgenza di domanda, soprattutto in settori dove, per la struttura e la natura del “prodotto” che offri, l'iperconsumo rischia di legarsi alla dipendenza patologica, non puoi credere che non si generi anche una concorrenza lecita o illecita nella risposta o un mix di entrambe nella risposta».

È quanto avvenuto in Italia in questi anni…

«Già. Dal 2003 a oggi quello che si è fatto è stato “fare cartello” garantendosi la copertura della concessione di Stato, ma adesso si scopre che il cartello è poroso e molte delle offerte che qualcuno qualificava sbrigativamente come illegali si rivelano nient’altro che tentativi fatti da operatori stranieri di inserirsi tra le pieghe di una normativa barocca, al fine di insediarsi in Italia senza pagare la relativa licenza. Questo non toglie che l’illegalità nuda e cruda esista, come nessuno dice che non faccia problema. Ma per noi è questa legalità a essere fortemente malata. Come tale va criticata.  Non serve a nessuno – presumo nemmeno agli imprenditori del settore – arroccarsi in difesa di uno status quo che sta cambiando anche per loro.

E lo Stato?

«Oggi, davanti all’illegalità, all’irregolarità, ma anche alla legalità e al lecito da cui dovrebbe trarre indubbio vantaggio (ma è poi davvero così?), il tanto vituperato Stato mi pare più simile al Ferdinando Quagliolo di Eduardo De Filippo (in “Non ti pago”) che, pur tenendo il banco e conoscendo l’andazzo, anziché guadagnare e far buon viso a cattivo gioco riusciva nell’ardua impresa di indebitarsi al gioco»

Stato biscazziere e indebitato. Come se ne esce?

«Lo Stato è baro quando conviene che così appaia agli occhi dell’opinione pubblica. Ma visto quello che succede in altri ambiti, lo Stato – se davvero intendesse, oltre che baro, essere anche cinicamente efficiente – potrebbe benissimo fare da sé, senza rinnovare più le concessioni ai privati. Non è una situazione che auspico, ma se l’alternativa che si propone è: o noi aziende– che tuteliamo gli interessi economici e fiscali dello Stato – o il baratro, visto che gli interessi che tuteliamo, lo Stato non saprebbe tutelarli da sé, mi limito a osservare che non è così. Che esistono altre vie…»

 

Vedi articolo precedente dialogo con Marco Dotti 

Città Nuova ha pubblicato in materia il testo "Vite in gioco. Oltre la slot economia".

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