Unità d’Italia, ieri oggi domani

Una festa contrastata. Un’opportunità per fare tesoro della storia patria.
Roberto Benigni

Un comico ci ha salvati dal ridicolo. Almeno quel tanto che serviva per il momento. Con la sua esibizione al Festival di Sanremo – il teatrale ingresso con cavallo bianco e vessillo tricolore, l’appassionata rievocazione di storia patria, l’accurata esegesi dell’inno di Mameli, poi cantato con straripante amore per l’Italia –, Roberto Benigni ha infatti messo una toppa (e che toppa!) ad una vicenda, quella del compleanno della Nazione, che la politica non ha saputo cogliere, nonostante i suggerimenti e le pressioni del presidente della Repubblica.

 

«È stata un’emozione incredibile – ha commentato quel toscanaccio giullare –. La più forte da quando faccio televisione». Ha prodotto brividi e commozione nei venti milioni di connazionali che seguivano la diretta e poi in qualche altro milione che su Internet è andato in tutta fretta a recuperare quanto perduto.

 

La battuta più politica l’ha indirizzata a Bossi: «Umberto, è la vittoria che è schiava di Roma, non l’Italia! Umberto, il soggetto è la vittoria!». La spiegazione del testo ha fatto capire, a tanti per la prima volta, il senso di quelle frasi scritte dal giovane Goffredo, morto a 22 anni nel 1849 nell’eroica difesa di Villa del Vascello a Roma.

Possiamo ben dire che ha fatto più Benigni di tutte le celebrazioni che si susseguiranno dal 17 marzo. «Il monologo di Sanremo – ha sottolineato Aldo Cazzullo sul Corsera – ha cambiato la percezione degli italiani della festa per i 150 anni, da ricorrenza triste di un Paese diviso tra secessionisti del Nord e neoborbonici del Sud a momento in cui molti si rendono conto di essere più legati all’Italia di quanto non amino riconoscere».

 

Una sorta di momento unificante, quello del comico pratese, preceduto e seguito, ahinoi, da settimane segnate da uno spettacolo surreale e triste della politica. Tanto che la festa per celebrare l’unità d’Italia ha continuato a dividere.

«Si lavora», avevano tuonato gli industriali. «Uffici pubblici aperti», aveva sentenziato il ministro Calderoli. «Tutti a scuola», suggellò la titolare dell’Istruzione, Gelmini. Insomma, la festa del 17 marzo, da poche settimane istituita, rischiava già una rapida soppressione, anche senza dare ascolto ai richiami antiunitari della Lega Nord. Tanto più che a non gradirla era pure Giuliano Amato, guarda caso presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni del 150.mo anniversario.

Venerdì 18 febbraio, la svolta. Il Consiglio dei ministri vara il decreto che istituisce il 17 marzo festa nazionale. Solo per quest’anno. Per recuperare il tempo sottratto alla produzione, il 4 novembre, festa delle Forze armate, sarà lavorativo.

 

Tutti contenti? Nient’affatto. E così il decreto relativo alla festa dell’unità non è stato approvato all’unanimità. Il ministro Maroni è uscito prima del voto, Bossi ha detto «no» e Calderoli ha aggiunto: «È pura follia!». Eppure Napolitano si era più volte espresso con l’incitamento ad onorare la ricorrenza insieme, indicando nel compleanno dell’Italia un’opportunità per vivere un clima di sapore unitario. Tanto più che un contributo giungerà anche da Benedetto XVI, primate d’Italia. Egli desidera infatti – hanno precisato i vertici vaticani – partecipare «in qualche forma» alle celebrazioni.

 

L’occasione del 150.mo è propizia anche per chiedere agli studiosi una rilettura seriamente scientifica degli avvenimenti risorgimentali e post-risorgimentali, compreso l’apporto dei cattolici all’unità della nazione. Potremmo così prendere tutti maggiore consapevolezza di chi sono gli italiani e di cosa potrebbe essere il Paese in un contesto di reciproca valorizzazione delle diversità. «C’è una gran voglia, e diffusa più di quanto si crede – ha osservato Napolitano – di celebrare le ragioni del nostro stare insieme, la patria. Altro che vuoti rituali». Chissà che non si possa dare anche alle nuove generazioni una memoria più certa e più condivisa, vera garanzia per il futuro del Paese.

Paolo Lòriga

 

BOX

 

Quel 17 marzo 1861

 

In quasi due anni, dalla primavera del 1859 a quella del 1861, da una penisola divisa in sette Stati, nacque la nuova configurazione. L’Italia unificata contava oltre 22 milioni di abitanti.

Nel documento della legge n. 4671 del Regno di Sardegna si legge: «Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato, noi abbiamo sanzionato e promulgato quanto segue: Articolo uno: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti di Governo». Parole che valgono come proclamazione ufficiale del Regno d’Italia. Accadde a Torino ed era il 17 marzo 1861.

 

 

Rapporti Chiesa e Italia

 

Prof. Marco Impagliazzo, quale il contributo dei cattolici all’unità d’Italia in questi decenni?

«Con l’unità d’Italia e la fine del potere temporale del papa – chiarisce il docente di Storia contemporanea all’università di Perugia –, si è creata una situazione nuova che è quella di un episcopato italiano, per la prima volta nella storia. Il papa realmente è diventato il primate d’Italia e i vescovi sono stati nominati dalla Santa Sede: una novità importante per la nostra Chiesa. I cattolici poi hanno sempre dato, nel passato come oggi, un notevole contributo sulle questioni sociali. Si pensi all’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII e la grande attenzione non solo al mondo degli operai ma anche alle persone in difficoltà che non si identificavano con la classe operaia. Il contributo della Chiesa si è manifestato durante le due guerre mondiali, la seconda, in particolare. La Chiesa è diventata un rifugio per i perseguitati dal fascismo e per le vittime della guerra. Essa, si può dire, è stata la madre della nazione durante questi momenti tragici. La stessa figura del papa – Pio XII defensor civitatis che scende per le strade di Roma bombardata per due volte – è emblematica del ruolo della Chiesa, di essere la protezione della gente: le guerre infatti non erano più conflitti tra militari ma registravano le vittime anche fra i civili».

 

La chiesa ha cercato di impedire entrambe le guerre mondiali…

«Certamente. Va ricordata l’opera di Benedetto XV nel primo conflitto, definito da lui una “inutile strage” e poi la vasta opera diplomatica e morale di Pio XII, con la frase celebre: “Tutto è perduto con la guerra, nulla con la pace”. Il grande tema della pace per il nostro Paese è stato ripreso nel 1994 da papa Wojtyla nella sua preghiera per l’Italia, ricordandoci la nostra storia, le nostre radici cristiane. Mentre c’erano dei fenomeni di disgregazione del tessuto dell’unità nazionale ad opera di alcune frange politiche, il papa fece un fortissimo richiamo all’unità del nostro Paese».

 

Ne è passata di acqua sotto i ponti dopo Porta Pia con le reciproche “scomuniche”…

«Dall’idea del papa prigioniero in Vaticano ai Patti Lateranensi del 1929 (rivisti nel 1984) c’è stata una reale conciliazione fra lo Stato e la Chiesa in Italia. In particolare, la Chiesa, specie dopo il secondo conflitto mondiale, ha svolto un notevole lavoro per garantire alla nazione un tessuto democratico e pacifico, e per collegarla in un vasto contesto geopolitico.

«La Chiesa, infatti, nutre un amore speciale per l’Italia. Sia per la presenza del papa, sia perché nel nostro Paese, e poi a Roma, ci sono le memorie di Pietro e Paolo: la storia della prima evangelizzazione passa per l’Italia, dove le memorie cristiane nei secoli si sono moltiplicate. Inoltre, nella storia più recente, è qui che sono sorti molti movimenti ecclesiali, come i Focolari durante l’ultima guerra, e ciò fa parte del discorso della Chiesa come “esperta di umanità” nei momenti difficili della nostra nazione. Il richiamo di Chiara Lubich e del suo movimento all’amore rappresentava una risposta dei cattolici alla grande domanda dei cittadini italiani».

 

È stato un bene alla fine la scomparsa del potere temporale.

«Si è trattato di un passaggio che ha reso la figura del papa più popolare, più spirituale. I cattolici lo hanno realmente scoperto, mentre prima era una figura molto lontana. Inoltre, questo “passaggio” ha dato autonomia alla Chiesa del nostro Paese».

 

Sotto quest’ottica, come si colloca la recente beatificazione di Pio IX?

«Ha un significato del tutto particolare. Egli amava l’Italia, ha cercato di darle un’anima – come dimostrano gli studi recenti del prof. Giovagnoli – e la sua contrarietà verso l’unificazione era vera solo in parte. Il problema di Pio IX stava nel poter garantire alla Chiesa un proprio spazio autonomo, cosa che si è rivelata come un messaggio autentico durante l’epoca dei totalitarismi. Se la Chiesa non è libera, con maggior difficoltà può difendere i suoi fedeli.

«Quanto ad oggi, in un momento di scollamento tra politica e cultura, i cattolici possono offrire un contributo culturale che gli viene dalla loro storia, dalle radici cristiane, dalla cultura del Vangelo. La politica è diventata troppo televisiva, poco attenta alle esigenze profonde della vita delle persone. I cattolici possono dare un contributo sul versante culturale e su quello della lettura antropologica della situazione di tanta gente, per difendere i grandi valori della vita e della solidarietà. Evitando di concepire la politica solo come scontro. Noi siamo gli uomini dell’incontro».

a cura di Mario Dal Bello

 

 

Passato e presente

 

Una festa per scoprire la nostra identità

 

Alberto Lo Presti insegna Storia delle dottrine politiche alla Pontificia università Angelicum, Roma, e Teoria politica all’Istituto universitario Sophia, Loppiano.

 

Cosa ha di destabilizzante celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia?

«L’unità della nazione dovrebbe servire a dare una identità ai suoi membri, una sicurezza nel comprendere chi sono, da dove vengono, quali tradizioni hanno. Per noi italiani, invece, l’unità è a volte motivo di incertezza. Questo è effetto di una storia patria convulsa ed originale. Infatti, l’Italia è una formazione storica che poteva aspirare prima di tante altre alla costruzione di uno Stato unitario. Poteva credere in sé fin dal Trecento, quando era fiorita una letteratura italiana (Dante, Petrarca, Boccaccio), una tradizione giuridica e una teoria politica moderna (ancora Dante, Marsilio, Bartolo) e arti, come la pittura, la scultura, ecc. Eppure, ci tocca aspettare i Mille di Garibaldi per diventare una nazione! Così, abbiamo da una parte una cultura grande e imponente, che si è affermata nel corso di tanti secoli. Dall’altra, invece, abbiamo una recente (150 anni) e complessa storia dell’unità nazionale.

 

«Questo spericolato dislivello fra la storia della cultura e quella della nazione ha significato il moltiplicarsi dei campanilismi, e le molteplici interpretazioni sull’identità civile degli italiani. Il risultato è che viviamo una sorta di psicologico distacco dalla storia nazionale, accresciuto anche dall’uso negativo che la retorica fascista ha fatto dell’amore patrio. Su queste contraddizioni si accendono oggi i riflettori, con la celebrazione dei 150 anni dell’unità. Di qui, l’entusiasmo e la freddezza, con cui una parte della classe politica e della cittadinanza sembra prepararsi alla ricorrenza».

 

Quali gli aspetti del Risorgimento che ancora pesano sul Paese?

«Innanzitutto, ad animare il Risorgimento fu un gruppo ristretto, una piccola élite politica. Le masse popolari non potevano essere incluse nel processo risorgimentale, perché non esisteva la massa, in senso stretto. La moltitudine di contadini che popolava l’Italia non faceva una massa, cioè un raggruppamento che, siccome aveva una coscienza del proprio stato, era pronto all’azione. Dunque, l’unità d’Italia fu un’operazione dall’alto, non dal basso. E questo timbro storico ha condizionato la nostra storia.

 

«Un’altra questione è il rapporto del risorgimento con la religiosità popolare. Nessun processo moderno di unificazione nazionale ha tentato di affermarsi contro la religione dei propri cittadini. Anzi, normalmente la religione è vista come un fattore sul quale basare l’unità. E invece, l’azione delle società segrete, spesso d’ispirazione massonica, è stata in alcuni casi palesemente contraria alla presenza del cattolicesimo, imprimendo alla storia italiana una direzione problematica».

 

Fare memoria dell’unità d’Italia a cosa invece può servire in questo frangente nazionale?

«A ricordarci che l’unità è un principio politico superiore, che dovrebbe esprimere il bene comune di tutti gli italiani, proiettati in un unico destino storico. Per esempio, sarebbe necessario ricostruire il rapporto fra Nord e Sud del Paese. Nessuno può avere la presunzione di credere che può salvarsi da solo, e che anzi ha più chance di farla franca se si separasse dalle zone meno produttive dell’Italia. Ecco allora che la celebrazione dei 150 anni d’Italia può tornare al servizio di una rinnovata comunione fra comunità locali differenti, di amore per il territorio, di passione per il suo patrimonio artistico e culturale».

 

Quale lezione ci consegna il Risorgimento per il futuro del nostro Paese?

«La Giovine Italia fu fondata dal 26enne Mazzini, nel 1831. Era un’associazione composta di giovani. L’idea era che un disegno alto come l’unità, un ideale forte come l’indipendenza, richiedessero energie giovani, capaci di agire in virtù di valori alti, non negoziabili. La Giovine Italia era anche una formazione europea, collegata all’omologa francese, tedesca e polacca. Ecco quanto c’insegna la storia del nostro Risorgimento: la rinascita del nostro Paese può passare per il riscatto generazionale, per il coinvolgimento delle generazioni più giovani, che devono essere considerate come un’opportunità storica, sulle quali investire più di quanto si fa. E la dimensione è l’apertura al mondo, secondo una vocazione civile davvero italiana, che fin dai tempi di Roma sapeva conciliare identità nazionale con la multiculturalità. E se la Giovine Italia ardeva per l’insurrezione politica e militare, sarebbe davvero significativo che oggi il nostro Paese si impegnasse per un’azione mirata e strategica all’insegna della fondazione di una comunità internazionale sempre più allargata, inclusiva, protesa verso gli obiettivi della pace e della cooperazione».

a cura di Paolo Lòriga

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