Un nuovo uomo dell’Onu per la pace

Trump, con un tweet molto discusso dai suoi stessi militari, decide di ritirare le truppe Usa dalla Siria e una parte importante, 7 mila uomini, delle forze schierate in Afghanistan. A testimonianza di un “grappolo di conflitti” inestricabili. Pedersen scelto dopo le dimissioni di De Mistura come inviato speciale Onu  

Il settantunenne diplomatico italo-svedese Staffan de Mistura aveva annunciato fin da ottobre scorso le sue dimissioni da inviato speciale Onu per la Siria, per motivi familiari. Il suo successore, nominato dal segretario generale Guterres, è il norvegese Geir O. Pedersen. «Non ho intenzione di fare commenti finali – ha detto De Mistura –, perché voglio assicurarmi che il mio successore non debba leggere fra le righe delle mie raccomandazioni. Lui, che inizierà il 7 gennaio 2019 e che a mio avviso è eccellente, dovrà sentirsi libero di seguire quella che reputa la via migliore». Ma qual è questa via migliore e a che punto sono le trattative diplomatiche per la pace in Siria? In 4 anni de Mistura non sembra aver conseguito risultati apprezzabili. La situazione è peraltro complessa e intricatissima, ed è difficilissimo capirci anche solo qualcosa.

Per riassumere le posizioni dei vari attori regionali e internazionali presenti in Siria occorre partire dalla Risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Csnu), del dicembre 2015, sull’autonomia e l’indipendenza della Siria, ricordando che 4 Paesi (Francia, Regno Unito, Russia e Usa) presenti fra i 5 membri permanenti del Csnu sono direttamente coinvolti nel conflitto siriano: restava fuori, ma solo apparentemente, la Cina, che è favorevole ad Assad pur non avendo finora partecipato ufficialmente né a scontri armati né a trattative diplomatiche. Le iniziative internazionali finora messe in atto per cercare di comporre il conflitto siriano sono in sostanza due: quella promossa dall’Onu a Ginevra (che va avanti con varie fasi piuttosto inconcludenti dal 2012); e quella avviata invece da Iran, Russia e Turchia (il gruppo di Sochi degli alleati di Assad) ad Astana.

 

SiriaIl 18 dicembre scorso a Ginevra, in Svizzera, si sono ritrovati con il dimissionario inviato delle Nu, i ministri degli Esteri di Iran, Russia e Turchia. Lo scopo era ancora una volta quello di individuare i membri di un comitato in grado di proporre una nuova Costituzione siriana: si discute sui nomi di 150 persone. La lista comprenderebbe 50 membri segnalati dal governo siriano, 50 dalle opposizioni che hanno accettato di partecipare a questo negoziato (che non sono quindi tutte le opposizioni), e altri 50 comprendenti figure indipendenti provenienti dalla società civile. Ma le proposte dell’Onu su quest’ultimo gruppo sono state finora respinte e i ministri degli Esteri di Iran, Russia e Turchia hanno avanzato al posto della lista Onu una loro proposta congiunta di 50 membri che dovrebbero ottenere il via libera dalla comunità internazionale. Ma non è facile che ciò accada.

Ad Astana, capitale del Kazakistan, il 28-29 novembre scorsi si è svolto l’undicesimo incontro promosso da Russia, Turchia e Iran, al quale hanno partecipato delegazioni del governo siriano e di alcune opposizioni. Erano presenti, ma solo come osservatori, anche le Nazioni Unite e la Giordania, con tavoli tecnici della Croce Rossa e dell’Alto commissariato per i rifugiati (Unhcr). L’unico risultato raggiunto finora dai Colloqui di Astana è la creazione della zona demilitarizzata di Idlib, nel Nord della Siria, dove sono concentrati insieme ad oppositori del regime di Assad e milizie filo-turche, anche gruppi di irriducibili qaedisti e, naturalmente, la popolazione locale curda e araba rimasta intrappolata nella sacca.

Dopo quasi otto anni di guerra, oltre 500 mila morti e 5 milioni di rifugiati usciti dai confini siriani, le prospettive di pace appaiono più che esili in una guerra che ha schiacciato (ma non sconfitto) lo Stato Islamico e che riprende ora nella prospettiva di difendere gli interessi di tutti contro tutti, compresi quelli extra-siriani ed ulteriori di Usa, Arabia saudita e Israele da un lato; di Turchia e Qatar da un altro; degli sciiti iraniani ed Hezbollah da un altro ancora. Per non fare che qualche esempio.

Come scriveva qualche tempo fa Giovanni Parigi su Oasis: «Il rischio è sempre più quello di iniziative unilaterali da parte dei molti attori locali e regionali che, sfuggendo al controllo dei loro sponsor internazionali, rischiano di scatenare inediti cicli di conflitto: di fondo, in Siria, ognuno combatte la propria guerra».

Pedersen, il nuovo inviato Onu per la Siria, ha indubbiamente una grande esperienza diplomatica alle spalle, con incarichi di primo piano come ambasciatore in Cina e rappresentante della Norvegia al Palazzo di Vetro, ma dovrà fare i conti con un nodo che ricorda molto da vicino quello gordiano, di leggendaria e inestricabile memoria. Ma ben venga tutto ciò che può almeno contrastare lo sterminio di civili e le orribili condizioni in cui crescono milioni di bambini che non hanno mai conosciuto la pace.

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