Trump e il giorno dell’insurrezione

Un nutrito gruppo di sostenitori del presidente uscente Trump hanno assaltato il Campidoglio provocando 4 morti, oltre 50 arresti e aprendo una ferita al cuore della democrazia, nel giorno in cui Biden è stato confermato 46° presidente Usa.
Sostenitori di Trump assaltano il Congresso a Washington, foto Ap.

Ho visto le lacrime sul volto di molti americani. Alcuni di loro guardavano le immagini del Campidoglio vandalizzato immobili, senza batter ciglio. Increduli. Sconvolti. Il tempio della democrazia veniva profanato, irriso, vandalizzato senza che la polizia opponesse resistenza a bandiere confederate, tenute militari, coreografici vichinghi: tutti rigorosamente bianchi, tutti proud – orgogliosi – di essere lì per mandato presidenziale.

Perchè pochi minuti prima era stato lo stesso presidente Trump ad aizzare alla marcia e alla rivolta per una elezione che di rubato ha ben poco, mentre di frodi verbali ne contiene tante e anche costose, viste le cifre a 6 zeri spese per il riconteggio dei voti, proprio negli Stati dove aveva perso e ha continuato a perdere.

Deturpare la Casa del popolo e della Costituzione è una ferita al cuore della democrazia  americana e non chiamiamo gentaglia, teppisti quelli che hanno operato lo scempio: sono trumpiani, sostenitori di un presidente e membri di un movimento che non si fermerà con la certificazione della vittoria di Biden e neppure con il suo giuramento il prossimo 20 gennaio. Biden da poche ore ha ricevuto la conferma della vittoria, nonostante 6 senatori e 121 deputati GOP hanno continuato a sostenere irregolarità e frodi che, stranamente, nella stessa scheda elettorale (negli Usa la scheda è unica per eleggere presidente, Senato e Camera) hanno colpito solo il presidente e non quei rappresentanti repubblicani che hanno conquistato seggi al Senato e accresciuto i numeri alla Camera.

La frode ha solo un nome: Trump, che se non può vincere con un processo regolare, come sostenuto ieri durante il comizio a Washington da Rudolf Giuliani, può «andare a processo, combattendo». In quello che sarebbe stato il giorno del passaggio regolare dei poteri si è consumato lo sfregio delle istituzioni, perchè gli assalitori, oltre ad aver sequestrato i rappresentanti del popolo e bloccato l’esercizio delle pubbliche funzioni, hanno divelto targhe, rubato leggii, strappato foto, inconsapevoli che per molti di loro questa prova di patriottismo malato si tradurrà in anni di carcere.

“Law and order – legge e ordine”, ha twittato e gridato per mesi il presidente Trump, non lo ha fatto ieri o lo ha fatto troppo tardi, quando “la sua gente speciale”, ha seminato non solo distruzione, ma ordigni in vari angoli del Campidoglio, profanando prima che un edificio una Costituzione, un sistema elettorale, un processo democratico, “umiliando il Paese”.

Come gli americani amano dire al mondo e ora stanno sperimentando nella sua tragicità, un segno distintivo della democrazia è la volontà di accettare la sconfitta e il trasferimento pacifico del potere. La tragedia delle ultime due elezioni presidenziali è stata il rifiuto partigiano di accettare la sconfitta, lo hanno fatto i democratici insistendo sulle ingerenze russe che hanno consegnato il Paese ad una persona “manovrata” da Putin, lo ha fatto all’estremo Trump e lo hanno fatto troppi repubblicani incuranti di danneggiare la democrazia e la forma di governo che la esprime.

Oggi sarà il giorno in cui si parlerà più che della vittoria confermata di Biden, del 25° emendamento, cioè  della rimozione di Trump perchè incapace di espletare le funzioni d’ufficio: lo hanno chiesto ieri decine di rappresentanti del Congresso, ex consiglieri presidenziali, 1.400 industriali, i principali media del Paese. Dopo ieri, però, non si riparte solo da vittorie e sconfitte e neppure dalla “dittatura” di una ritrovata maggioranza per i democratici che hanno conquistato i due seggi al Senato in Georgia.

Si riparte da quel “presidente per tutti”, più volte citato da Biden e si riparte da quell’anima buona dell’America che per il filosofo Alexis de Tocqueville era la vera grandezza del Paese, perchè «se mai l’America dovesse cessare di essere buona, cesserebbe di essere grande».

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