Tornavamo dal mare

Conoscevo la prosa acuta e svariante di Doninelli ai tempi de Il Sabato, rivista che i cattolici italiani hanno lasciato morire con la compiacenza del laicismo più bigotto. Non aveva mai un punto di vista banale, Doninelli, e lo ha dimostrato poi anche Come narratore, con romanzi brevi o racconti lunghi che hanno come unica mira Lo scavo nella realtà psicologica, fino alla falda spirituale, di personaggi per nulla eccezionali, in situazioni comuni o addirittura minimali. Il suo libro più bello e importante è rimasto a tutt’oggi Talk Show, pochissimo letto e recensito perché mette ai raggi X con spietata anamnesi-diagnosi (solo in pochi momenti lievemente eccedente) un popolare programma televisivo pluridecennale e il suo conduttore, rivelandone il premeditato artificio: e questo non piace al pubblico consumista, e imbarazza i critici. Oggi un altro romanzo breve, ritmato negli agili capitoli dai titoletti allusivi, riassuntivi, prospettivi, si affianca nella resa complessiva alle migliori pagine già edite, conducendo nell’apparente facilità narrativa l’analisi serrata di un rapporto madre-figlia, analisi tesissima nel gioco sapiente di pieni e di vuoti sia negli ampi dialoghi, tra impressioni che restano implicite ed espressioni che vengono esibite, o sfuggono al controllo, sia tra questo e le essenziali descrizioni incastonate come didascalie, che non lasciano campo a divagazioni. In tal modo Doninelli cattura anche il lettore non affine al suo tipo di scrittura (è anche il mio caso). Madre dal passato estremista con tangenze terroristiche, figlia studentessa universitaria che nell’imperfetto dialogo adolescenziale intuisce la gravità e la necessità del non detto: tra le due donne, con altre storie parallele comprimarie, si tende e a poco a poco si esercita una schermaglia di tenerezze affilate e di riserve impaurite che tarda, a lungo, e meravigliando le stesse protagoniste, a sciogliersi in rapporto adulto di reciproca libertà. Doninelli è inflessibile come la presa di un rottweiler nel dare la caccia agli innumerevoli infingimenti che, tutti, frapponiamo non solo alle nostre scelte più mature, ma anche e forse soprattutto alle inevitabili, inaggirabili ricomprensioni di noi stessi ai giri di boa. E, con parallela conseguenza, non concede al lettore nessun alibi di b u o n – s e n t i – mento-di-compassione; perché di lui lettore anche e medesimamente si tratta, proprio del lettore mio simile e mio fratello, come diceva l’esperto Baudàlaire. Quindi, niente fantasmagorie romanzesche e colpi di scena sentimentali, tanto che è inutile riferire qui cosa accade; accade, più di tutto, che bisogna crescere, ad ogni costo, anche con grottesche sconfitte e inapprezzabili – dalla coscienza momentanea del presente – scatti dell’anima, la cui consapevolezza verrà più tardi; come quando la bambina al tramonto sta in braccio allo zio che dice tac allo scomparire del sole e lei girandosi lo guardava e ripeteva: tac; o quando la madre, iperideologizzata, vorrebbe essere dolce e invece si irrigidisce, vorrebbe persino pregare, lei ateissima, per un po’ di pace, per una vita semplice e banale per me e per tutti, ma non poteva (…) perché un abisso separava la lingua dalle labbra, un oceano (…) fossile, formato da residui di vita non vissuta che le sue azioni lasciavano continuamente dietro di sé. O come, ed è la fine del libro e il suo punto poetico più alto, la bambina divenuta donna libera dal passato della madre, e anche – pur nell’incolmabile nostalgia – dal padre che non ha avuto e che ora sta morendo, sogna di stare a pranzo col suo ragazzo in una trattoria di campagna investita da una bufera di pioggia e vento, all’aperto (all’aperto della vita): E il vento prodotto dall’acqua, freddo, le avrebbe accarezzato le gambe come una mano ruvida, maschile, come la mano di un papà che la sera, dopo una giornata di mare, tolga, sulla porta di casa, la sabbia rimasta sulle gambette svelte ma stanche del suo bambino.

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