Tancredi eroismo e amore

Gran bell’edizione al romano Teatro dell’Opera per il capolavoro del ventunenne Rossini (1813). Il quale, sui versi accademici di Gaetano Rossi (tratti da Voltaire) e sulla vicenda cavalleresca dell’esule Tancredi e del suo amore contrastato con Amenaide dal rivale Orbazzano, inventa una musica di bellezza neoclassica. Rispettosa della struttura settecentesca di arie, duetti, cori e recitativi accompagnati che si snodano educatamente uno dopo l’altro, come l’allestimento candido di Pierluigi Pizzi, con spazi e architetture vagamente alla De Chirico, i costumi atemporali (fra antico e moderno) e la regia rispettosa del dettato musicale, come si conviene ad un autore di classe. Il miracolo però lo fa Rossini. All’apparenza fedele all’aria eroica dei sentimenti e del loro nobile variare fra gioia entusiasmo e tristezza, innesta tuttavia un calore, una sensualità, un ritmo, una voglia di vivere felici tali da produrre crepe (invisibili ma reali) al decoro sublime del Neoclassicismo, a vivificarne di carne e sangue le aristocratiche armonie. Per questo, l’opera è sempre piaciuta, e piace ancora di più, se se ne ascolta poi, come a Roma, il finale tragico – alternativo a quello consueto del lieto fine -: sospiri degli archi, pause dense di lacrime trattenute, la voce che si spegne in un canto quasi monodico, a dire la morte come un addio dolcissimo, un dolore mesto ma non inconsolabile. Prima, tuttavia, ci sono stati empiti guerreschi – alla Torquato Tasso – duetti luminosi, arie soavi, una freschezza torrenziale di ispirazione che canta la giovinezza, piena di slanci e di ideali. Guianluigi Gelmetti – rossiniano di lungo corso e di grande amore per il Pesarese – ha avuto la felice intuizione di lasciar cantare le voci, liberamente (ma ordinatamente) così che l’orchestra, evitando il pericolo del grigiore, fosse libera di assecondarle (quasi di gareggiare) in colori, variazioni, luci. Un esempio per tutti. Marianna Pizzolato, protagonista dalla voce ampia e vitale del secondo cast, nell’eseguire la ripresa dell’aria dei palpiti, la colora giustamente di delicate variazioni: i legni la seguono e la commentano con fioriture melodiose, sul m o m e n t o , unendo facilità d’improvvisazione a gusto rossiniano perfetto. Certo, Gelmetti ha potuto agire con tale gioiosa libertà perché aveva a disposizione due cast di alto livello. Nel primo, spiccavano la protagonista Daniela Barcellona, esperta ormai del ruolo, voce e portamento di classica fermezza, insieme a Mariella Devia – virtuosismo miracoloso, intelligente e ora anche caloroso -, Marco Spotti (un Orbazzano ardito, voce brunita dagli armonici stupendi) e l’Argirio di Raul Giménez, di squillante compostezza. Nel secondo, oltre alla citata Pizzolato, l’Orbazzano di Alex Esposito (bella voce cantabile di basso rossiniano) e l’infocata, preromantica (giustamente) Amenaide di Gemma Bertagnolli. Grande plauso alla resa dell’orchestra, migliorata ad ogni replica, in particolare ai legni (clarinetto Palermo, oboe Vignali, fagotto Zucco, flauto Macalli), mentre la discontinuità del coro comincia a suscitare qualche preoccupazione. Come pure la presenza del pubblico, cui si consiglierebbe – accanto all’entusiasmo che Tancredi ha suscitato – qualche accorgimento di carattere sociale, come quello di evitare di uscire precipitosamente appena calato il sipario, per fermarsi almeno un attimo a ringraziare gli artisti.

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