Sylvia, la cacciatrice salvata dall’amore

La favola pastorale della ninfa guerriera innamorata del pastore Aminta, rivive nel balletto di Manuel Legris che ha inaugurato la stagione di danza del Teatro alla Scala di Milano

Esemplare per il tema delle passioni, Sylvia, balletto su musiche di Léo Delibes, coreografia di Louis Mérante e libretto di Jules Barbier, ebbe la sua prima rappresentazione all’Opéra Garnier di Parigi nel 1876 col titolo Sylvia ou la Nymphe de Diane. Non ebbe successo allora, né in seguito, pur rimaneggiato in altre versioni. Si deve a Frederick Ashton per il londinese Royal Ballet, nel 1952, se quel titolo risorse dall’oblio. E ciò fu dovuto soprattutto al fascino della musica con le sue melodie ricche di sfumature, della quale Čajkovskij ebbe a dire la nota frase: «Se ne fossi venuto a conoscenza prima, certamente non avrei scritto Il lago dei cigni». Musica che ha ispirato altri compositori – come Vincent D’Indy, Claude Debussy, Camille Saint-Saëns – e coreografi.

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Sono comunque poche le versioni create nel ‘900: modernizzata quella del genio di John Neumeier per l’Opéra de Paris, nel 1997, entrata poi nel repertorio di numerose compagnie internazionali; più recente quella di Mark Morris per il San Francisco Ballet, nel 2004; e l’ultima, del 2019, dell’ex ballerino australiano Stanton Welch, per lo Houston Ballet. Quella a noi più vicina, del 2018, è la versione di Manuel Legris (ex étoile dell’Opéra di Parigi ai tempi di Nureyev), ripresa da quella originaria di Mérante e ricreata con vivacità per il Wiener Staatballett (di cui è direttore uscente), ora approdata, il 17 dicembre scorso, al Teatro alla Scala di Milano (coproduttore dello spettacolo) aprendo la nuova stagione del Piermarini. Ed è stato un grande successo di pubblico e di critica (premio Danza&Danza 2019, miglior spettacolo classico).

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La “favola boschereccia” e dai fasti mitologici, trae origine dall’Aminta del Torquato Tasso, ovvero la storia della ninfa di Diana, Sylvia, giurata alla castità e legata alla dea dalla passione venatoria, che prende in giro Eros, il dio dell’amore, e per questo punita innamorandosi del pastore Aminta. Viene quindi rapita dal cacciatore Orion che la tiene prigioniera nella sua grotta e, dopo peripezie, salvata da Eros in tempo per un lieto fine con una serie di balli di nozze. Tra boschi sacri, fauni e divinità dell’Olimpo, ninfe guerriere con frecce che scoccano, contadini e maghi, nei tre atti è tutto un susseguirsi di azioni e di danze in un montaggio scorrevole. L’aggiunta, da parte di Legris, di un Prologo, solitamente musicale, approfondisce subito il ruolo di Diana facendole apparire, in una visione, Endimione – l’ardente innamorato che ella ha fatto addormentare per poterlo contemplare segretamente e in eterno da uomo giovane e bello senza mai infrangere il proprio voto –, il quale alla fine le permetterà di essere benevola verso i due innamorati.

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La coreografia di Legris, sintetizzabile nella storia di una donna che si emancipa attraverso l’amore, «non vuole essere una ricostruzione – ha precisato lo stesso Legris – ma una ri-creazione che guarda alla tradizione con la sensibilità e il gusto di oggi». Ed è un vero trionfo del linguaggio classico-accademico, ricco di variazioni, virtuosismi, ensemble, caratterizzazioni, con sfoggio di tecnica e spettacolarità (grazie anche ai costumi e alle fastose scene baroccheggianti di Luisa Spinatelli), che ha messo in ulteriore risalto, grazie allo sguardo attento del direttore scaligero Frédéric Olivieri, la bravura di molti danzatori del Corpo di Ballo – oltre alle coppie principali di Martina Arduino e Claudio Coviello, e Nicoletta Manni con Marco Agostino – dando loro la possibilità di mettersi in luce nell’alternanza dei ruoli durante le repliche.

 

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