Sotto lo stesso tetto

A Treviso, quattro ragazzi hanno fatto spazio a trentaquattro rifugiati africani nella casa della Caritas dove vivevano.
Extracomunitari

Nella Treviso meglio nota per aver tolto le panchine dai parchi «perché altrimenti si siedono gli immigrati», quattro ragazzi in tre giorni hanno liberato parte della loro casa per far posto ai profughi da Lampedusa.

Sono i giovani del Movimento dei focolari, che vivevano nella struttura che la Caritas ha concesso loro in cambio dell’aiuto nel portare avanti i servizi che lì vengono forniti. Tra cui, appunto, alloggiare i neo-sbarcati. All’interno di queste mura, a pochi passi dalla stazione è così nato un ménage domestico unico nel suo genere.

 

Per necessità sopraggiunte in seguito, i giovani non abitano più lì da agosto: ma sono stati loro lo scorso maggio ad accogliere i migranti, giunti in Veneto nel cuore della notte dopo un viaggio in pullman dalla Puglia. Smistati pressoché a caso «come pacchi postali», senza alcuna documentazione in merito alle procedure di identificazione già svolte, dai 16 iniziali sono diventati 34: tutti uomini dall’Africa subsahariana tra i 20 e i 40 anni, più una donna con la sua bimba, di appena due mesi.

 

Benvenuti, welcome, bienvenus

 

Il cortile è gremito dagli studenti del corso in Scienze infermieristiche che l’università di Padova tiene nelle strutture della Caritas. A palleggiare sotto il canestro però c’è una figura che spicca, non solo per l’altezza: si vede che ci sa fare. Infatti Michael, ventitreenne nigeriano, è giocatore professionista di basket. Ha giocato in diversi Paesi africani, in fuga da una guerra all’altra, più che in base agli acquisti delle squadre. Ultima tappa la Libia, da cui è scappato «senza nemmeno chiedermi dove fosse diretta la barca». Ci accompagna a visitare la casa. Ad accoglierci è un benvenuto trilingue, così come tutti gli avvisi e affissioni che ci sono lì.

 

Mentre giriamo per le stanze, Michael si ferma sotto la bandiera della pace: non fa che ripetere come qui l’ha finalmente trovata, dopo dieci anni trascorsi a fuggire dai conflitti. Ora può sperare che le guerre non spezzino i suoi sogni: «Vorrei giocare nella Nba, il campionato americano». Non la Benetton, visto che siamo a Treviso? «Noooo, Benetton “no buona”!».

 

Ci mostra i documenti – tra cui le tessere di numerosi club sportivi – che ha portato con sé in una busta di plastica, visibilmente scoloriti dal viaggio: la prova del suo pellegrinaggio tra Togo, Ghana e Costa d’Avorio. Intanto siamo arrivati in camera sua. Quando Federico, che ha vissuto nella casa e ci accompagna nella visita, gli fa notare che anche lui dormiva lì, Michael si illumina; esclama: «My brother!», mio fratello, e vuole assolutamente una foto con lui.

 

Un viaggio verso l’ignoto

 

Torniamo nella stanza comune, dove alcuni degli ospiti stanno guardando la televisione. Anche questo è un modo per imparare l’italiano, per quanto si possa discutere sulla correttezza sintattica e grammaticale che passa sui nostri canali. Dopo l’iniziale circospezione iniziano a raccontare, «perché – come afferma Nasir, nigeriano – noi siamo senza voce, la nostra voce siete voi». Riferisce di essere arrivato in Libia per lavorare nel 2007. «Un giorno, mentre andavo al lavoro – prosegue – la polizia mi ha fermato, mi ha chiesto i documenti, mi ha preso i soldi e messo su una barca. Non sapevo dove fosse diretta». Una lancia in più a favore della teoria secondo cui Gheddafi avrebbe usato gli sbarchi come arma di pressione verso l’Europa.

 

Anche Julius, suo connazionale, dice di essere stato fatto imbarcare allo stesso modo: «A me però avevano assicurato che ci avrebbero portati a Roma». Meno male che non era vero: risalire fino al Tevere senza cibo né acqua sarebbe stata dura. Dopo tutto quello che hanno passato durante il viaggio, il sentimento comune è la gratitudine: «Ringraziamo tanto gli italiani, la Caritas, e tutti quanti quelli che ci hanno salvato».

 

Ed ora? «Ciascuno di noi ha la sua professione – prosegue Nasir – e intende esercitarla, appena arriveranno i documenti». Elettricisti, carpentieri, muratori: il panorama è variegato. «Ma siamo disposti anche a fare altro – precisa Julius – perché vogliamo rimanere, almeno per ora». Coscienti che dovranno adattarsi: «Capiamo bene – aggiunge Hachim, del Mali – che quando vivi in un Paese straniero devi rispettarne gli usi e impararne la lingua: e noi vogliamo imparare l’italiano e vivere da italiani, perché è giusto così».

 

Dal “sajjada” all’Angelus

 

Anche Nasir insiste per farci vedere la sua camera. In bella vista sulla scrivania, il libro di italiano che usa al corso tenuto dai volontari della Caritas. Sul muro, una sua foto in chiesa e un foglio con il Padre nostro in italiano e inglese. Ai piedi del letto però c’è un sajjada, il tappeto per la preghiera dei musulmani: qualcosa non torna. «Sono musulmano – conferma – e ho sempre visto la mia gente scontrarsi con i cristiani. Ma qui ne ho conosciuti tanti e ho capito che siamo tutti figli dello stesso Padre: preghiamo insieme, a volte vado in chiesa con loro».

 

Davide, che lavora alla Caritas, conferma: «La maggioranza degli ospiti è musulmana, ma qui si prega insieme ogni giorno. Domenica scorsa – ricorda – davanti all’Angelus in televisione erano tutti incantati». Una potenziale risorsa per una pace futura nel continente se, come afferma Nasir, «un giorno voglio tornare in Nigeria e dire a tutti che siamo fratelli».

Forse è proprio il desiderio di pace il filo rosso che collega le loro storie. Una sfida, per molti inaspettata, che inizia adesso: «Non avrei mai immaginato di arrivare qui – conclude Nasir – ma è successo. Ieri non ci conoscevamo, ora sì, e nemmeno questo avrei immaginato. Non so cosa mi capiterà, ma so che la vita è sempre una sorpresa».

 

Una città dalla doppia anima

 

Don Davide Schiavon è direttore della Caritas di Treviso dal 2008. Già all’inizio degli sbarchi aveva pensato come essere d’aiuto: ma la richiesta del vescovo di ospitare gli immigrati è arrivata prima. Un’accoglienza che va oltre l’aprire le porte a chi arriva da lontano.

 

Don Davide, non dev’essere stato facile dire ai ragazzi “fate spazio”.

«In realtà i giovani hanno una una vera e propria vocazione all’accoglienza, infatti hanno reagito benissimo. Dobbiamo abbassare le critiche verso il mondo giovanile».

 

Anche in un contesto contraddittorio come Treviso che, se da un lato sembra rifiutare gli immigrati, dall’altro – secondo le ricerche sociologiche – gode di un buon livello di integrazione?

«Treviso ha una doppia anima: se l’impegno e la solidarietà sono insiti nel Dna dei trevigiani, nel tempo si è creato un connubio pericoloso tra la ricchezza arrivata troppo in fretta e l’enfasi sulla paura dell’altro: così ora, di fronte al doloroso risveglio dal miracolo del Nordest, il timore che arrivi qualcuno – straniero o no – a portar via il benessere faticosamente costruito ha preso il sopravvento. L’accoglienza non è una questione di razza, ma di aprire gli occhi sul nostro vicino. E questa, purtroppo, è una capacità che in molti è sopita».

 

La città, quindi, come li ha accolti?

«Purtroppo c’è molta indifferenza, anche all’interno del mondo ecclesiale. È grave che, di fronte agli inviti e alle proposte che abbiamo avanzato per favorire la conoscenza, non ci sia stata risposta significativa. È più facile fare una colletta per il Corno d’Africa che venire qui per mezz’ora».

 

Le istituzioni si stanno appoggiando a diversi enti non solo per gestire l’emergenza immigrati, ma il welfare in generale: prevale una logica di cooperazione o di delega?

«Sono due realtà compresenti: in alcuni settori, come appunto l’immigrazione, la delega è chiara per ragioni politiche: non ci si vuole entrare per non perdere il consenso. Dall’assistenza medica, a quella legale e psicologica, abbiamo dovuto provvedere noi, grazie ai volontari o rivolgendoci agli ospedali. In altri, come il sostegno alle famiglie, abbiamo valide esperienze di cooperazione con amministrazioni di ogni colore politico».

 

Come avete organizzato la permanenza qui degli immigrati?

«Una volta richiesta la protezione internazionale, possono lavorare fino a quando non hanno ottenuto risposta: attualmente una quindicina di loro ha un impiego. Gli altri sono inseriti nei laboratori occupazionali e nei corsi professionali che già organizziamo, oppure danno una mano agli oltre 70 volontari che lavorano qui: alcuni si sono anche offerti di fare i turni alle docce per i senzatetto. A queste occupazioni si aggiungono i corsi di italiano, tenuti da insegnanti volontari, e attività ricreative e sportive: li abbiamo anche portati in spiaggia, dove hanno fatto capannello coi turisti con i loro bonghi».

 

Ed ora, che futuro si apre per loro?

«Secondo la legislazione attuale, l’unica possibilità per rimanere in Italia è ottenere la protezione internazionale. Tutti hanno fatto domanda, ma solo undici hanno avuto l’audizione: per gli altri andremo al 2012. Sebbene la decisione venga presa il giorno stesso, la commissione ha 40 giorni di tempo per comunicarla alla questura, che ne ha altri 15 per farla avere al diretto interessato. La convenzione per l’ospitalità scade il 31 dicembre e al momento non si sa cosa accadrà poi. I parametri per la protezione internazionale sono molto stretti, tanto che nella maggioranza dei casi viene disposto il rimpatrio assistito: ma non si sa verso dove, dato che molti non hanno documenti, né con quali risorse, tanto che spesso alla fine rimangono in Italia. Un tale sistema è una fabbrica di irregolari».

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