Silenzio e parola

La vicenda di Giulia Cecchettin merita attenzione, merita rumore, tanto rumore, così come un’azione – anche nel silenzio − per cambiare le cose. Senza dimenticare le altre sofferenze umane. Una risposta all'articolo di Elena Granata "Giulia e Filippo: parole e rumore, tanto rumore, per favore"
La manifestazione contro la violenza sulle donne a Milano (AP Photo/Luca Bruno)

Cara Elena, inutile confermarti stima ed amicizia, ci mancherebbe! In quest’epoca di demonizzazioni reciproche, di polarizzazioni estreme, l’amicizia e la stima debbono rimanere, costi quel che costi. Un mese fa, ho partecipato alla manifestazione contro la guerra di Firenze, musulmani, cristiani, ebrei e agnostici insieme, uomini e donne e bambini, in nome proprio della stima reciproca e dell’amicizia. Le parole erano inutili, ci si sarebbe accapigliati a ogni pensiero formulato, non valeva la pena distruggere un patrimonio accumulato in tanto tempo sulle rive dell’Arno.

Detto questo, ti ringrazio perché hai posto l’accento, che ‒ lo confesso ‒ mi ha un po’ ferito, sulla “distanza emotiva” che avrei nei confronti del problema della violenza sulle donne. Può darsi, non lo nego, non sono una donna e quindi non potrò mai comprendere appieno un tale dolore. Ma vorrei farti notare che la mia richiesta di silenzio non era certo centrata sul dolore di Giulia e della sua famiglia, della sorella in particolare, ma sulla cacofonia, sugli sproloqui mediatici cui assistiamo a proposito di questo caso.

Ho scritto da studioso di comunicazione – questa era la mia prospettiva, non certo quella di un fustigatore di costumi −, e come tale non posso non sottolineare le incongruenze, le banalità, la pochezza di tanti interventi mediatici. Non posso nemmeno tacere il fastidio profondo che mi prende vedendo quanta gente salta sul carro della protesta pur non avendo nessuna “vicinanza emotiva” né alcuna adesione concreta a un cambio di mentalità: chi appartiene al jet-set troppo spesso si aggrega, «basta che si parli di me».

Oltre a quella mediatica, un’altra prospettiva che mi ha guidato nel commento che ti ha urtato è la sproporzione usata dai tg tra i problemi di casa nostra e i dolori del mondo. Lo sai, ho viaggiato a destra e a manca sul pianeta, ho ascoltato i pianti e le lacrime di tanta, troppa gente. Ho visto guerre e vittime della guerra. Ho pubblicato un libro con Massimo Toschi, collaboratore di Città Nuova e comune amico – oggi infermo in ospedale, una prece! –, su un nostro viaggio nella guerra di Siria: mi ha fatto capire, lui poliomielitico dall’età di un anno, che bisogna sempre mettersi dalla parte delle vittime per capire la storia. E agire.

Ho capito che il mio giornalismo non aveva più senso se non mi mettevo radicalmente dalla parte delle vittime. I 15 minuti dei tg dedicati al caso di Giulia e Filippo – considerato nell’articolo soprattutto come un caso di cronaca − mi sembravano togliere minuti preziosi d’informazione sulle madri dei bambini ostaggio di Hamas, sulle donne e gli uomini e i bambini che stanno sotto le bombe a Gaza, sulle donne e sui bambini che a Goma continuano a raccogliere il coltan per i nostri telefonini, sfruttati e bastonati, uccisi per una ciotola di terre rare! Per questo mi sono sentito indignato nel vedere così tanto spazio mediatico (e fatto male) dato a un caso di cronaca, gravissimo, ma pur sempre da inquadrare nelle indicibili sofferenze che si incontrano sul pianeta.

Detto questo, hai ragione. Non ho sentito arrivare l’ondata d’indignazione per le violenze sulle donne; o meglio, l’ho percepita, io stesso sono sceso in piazza, io stesso sto aiutando un paio di donne che non riescono a liberarsi dalla violenza entro le mura domestiche, non posso sentirmi estraneo alla necessità di una reale parità tra generi, ci mancherebbe; ma non mi sono reso conto che forse oggi siamo di fronte a uno di quei movimenti sociali che cambieranno la storia, almeno un brandello della nostra italica storia.

Giulia, l’ingegnera Giulia, sta effettivamente diventando il simbolo di una rinascita collettiva, di un sussulto di dignità. Di non aver colto il momento, di questo chiedo venia, non sempre si è all’altezza degli eventi. Ma ti prego di non dimenticare, nella persona di Giulia e della sua famiglia, anche Fatima che è sotto le bombe, Ruth che aspetta sua figlia, Janine che a Goma rischia ogni giorno la vita per far mangiare i figli.

Qualche anno fa scrissi un libro, di comunicazione, intitolato Il silenzio e la parola, la luce, per i tipi di Città Nuova. Cercavo di raccontare qualcosa di uno degli archetipi fondamentali della vita e della storia umane, l’articolazione tra la parola e il silenzio, archetipo che regola − al di là della nostra volontà − la vita sociale. Riusciremo ad articolare bene la parola col silenzio, anche nel momento del “rumore”? Intanto gridiamo alto e forte no a certe violenze, sono d’accordo con te, Elena, sapendo che verrà (o forse è già qui) il momento del silenzio dell’azione efficace.

Per approfondire: Focus Contro la violenza sulle donne

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