Semplicemente correre

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La nebbia dirada indolente sui Fori Imperiali. I primi raggi di sole illuminano il Colosseo mentre ci sfiliamo il kway per iniziare il riscaldamento. I nostri occhi, assonnati dall’ora legale, si accendono alla vista del parterre di partenza della maratona. È questo infatti l’obiettivo comune che ha attirato fra queste austere antiche pietre decine di migliaia di appassionati della corsa. In attesa del via splende un arcobaleno di tute e magliette ed un vociare incessante in decine di idiomi. Lì, molto avanti a noi, sono pronti a partire i campioni: kenioti, marocchini, etiopi, ucraini, qualche italiano. Per resistenza e doti atletiche sono di un altro pianeta, ma il fascino della maratona sta proprio nel gareggiare assieme a loro, sul medesimo percorso, condividendo una sfida uguale per tutti: 42,195 chilometri. Al nostro arrivo avranno già ricevuto il premio, fatto la doccia e rilasciato interviste, ma questo non sminuisce nessuno. Pochi chilometri dopo il via, sul Lungotevere, ciascuno ha già preso il suo ritmo. Da diversi minuti sono già sfilati i professionisti. La prestazione è il loro fine ultimo: corrono in meno di due ore e dieci minuti. Anche se è improbabile che uno di loro possa un giorno vincere un’olimpiade, rappresentano un’élite di atleti fortissimi che si sfidano senza risparmio nell’impegnativo circuito mondiale delle maratone, attirati anche da ingaggi e premi di valore. Dietro ad altri atleti di buon livello, sono già sfilati anche i maniaci, figure tipiche nella tribù dei maratoneti. In genere quarantenni, corrono in cerca di record sulla distanza (meno di quattro ore, meno di tre ore…), convinti che questo procuri una qualche immortalità. Corrono solo per migliorare, sputano sangue nella preparazione, hanno una cultura enciclopedica su programmi di allenamento, alimentazione ed integratori. Il tutto stando ben attenti alla visibilità fra amici e familiari. Quando non migliorano più, in genere smettono. Figure altrettanto tipiche, di certo più rappresentate, sono i decoubertiniani. Sono coloro che trasformano la partecipazione in una vittoria: poiché agli occhi dei non sportivi correre una maratona è impresa eroica ecco che il decoubertiniano la usa per acquisire visibilità (specie correndo quella di New York, un cult nell’ambiente), nascondendo a se stesso (e agli altri) che finire una maratona è banale con un minimo di allenamento. Ma anche una maratona fatta camminando può risultare un impresa eroica raccontata solo ad obesi sedentari. Quando la maratona non basta ecco il fenomeno delle plurimaratone (10-20 all’anno) o delle ultramaratone (100 chilometri). La visibilità può essere anche più nobile: quando è interna, verso sé stessi, in cerca di autostima. Basta poi non vivere solo di ricordi. Me lo sono ripetuto più volte prima di partire. Ci sono poi quelli che nell’ambiente chiamano i sacchettari, coloro che cercano di mettersi in mostra ogni domenica nelle corse paesane con l’obiettivo di portare a casa qualcosa (i sacchetti, appunto, con premi in natura: formaggi, salumi, vini, pasta), cimentandosi in sfide spesso più agonistiche di una finale olimpica. Meno rappresentati, intimoriti dalla lunghezza della maratona, sono i jogger, coloro che indossano la tuta solo la domenica, o gli stagionali, che corrono solo in primavera, per occupare il periodo fra il letargo e la prova costume. Con notevole ritardo passeranno i tapascioni, coloro che usano lo sport per coltivare rapporti sociali, che affollano le corse non competitive, che non associano sport e benessere personale, che amano la buona tavola. Se proprio non arrivano in fondo una trattoria di Trastevere è pur sempre un buon traguardo. Mescolati fra queste figure eccentriche, corrono, in genere più distesi e sorridenti, coloro per i quali la corsa, ed in generale l’attività fisica, è stile di vita: ricercano il benessere psicofisico, hanno continuità, osservano un’attenzione salutista nell’alimentazione, non corrono contro il tempo, non sfidano nulla e nessuno, se non la sedentarietà, riescono persino a gustarsi i luoghi dove corrono. Quando passiamo Piazza San Pietro, Trinità dei Monti e la Fontana di Trevi, sanno dirti che signori, siamo a Roma!. Quando assapori questo gusto capisci perché altre 12 mila persone siano oggi a correre e faticare assieme a te, capisci perché si corrano oltre 50 maratone ogni anno solo in Italia, capisci cosa muove uno come Lino Tadei, 85 anni, romagnolo, arrivato decimillesimo. Quando Kipkorir tagliava il traguardo lui era dalle parti di Ponte Milvio, chilometro 15. Solo il diletto della corsa ti sostiene col passare dei chilometri, quando un silenzio consapevole prende il posto dell’eccitato vocio della partenza e le gambe cominciano a dolere. Se ai primi ristori si continuava goffamente a correre col bicchiere in mano, ora non si disdegna una sosta, pur brevissima perché riprendere è sempre doloroso. Gli spugnaggi sembrano oasi nel deserto sotto il sole di primavera. Quando iniziano i primi ritiri per crampi capisci che nella corsa, a differenza di altre discipline, non esistono scuse e puoi contare solo sulle tue forze. Stringi i denti, supportato da un pubblico che col passare dei chilometri si fa sempre più fitto e caloroso e dal pensiero dei figli che ti aspettano al Colosseo. Quelle poche centinaia di metri in salita a Colle Oppio paiono un ascensione dolomitica, ma quando hai aggirato il Colosseo e senti i figli che urlano, tagli il traguardo sotto gli scatti delle fotocamere come se avessi vinto, ti mettono al collo la medaglia (di partecipazione), ti coprono col telo termico come alle Olimpiadi, fai fatica a trattenere la soddisfazione ed una lacrima di commozione. Deve essere per questo che ogni anno c’è sempre più gente che corre.

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