Salvare l’ambiente al tempo della sovrapproduzione

Seminario internazionale promosso dai padri comboniani sulle storie di resistenza all’inquinamento di una produzione dell’acciaio che va ripensata nella sua filiera mondiale. Intervista a Beatrice Ruscio di Peacelink sulle testimonianze dall’America Latina all’Africa
Vale in Mozambico

Continuiamo con Beatrice Ruscio dell’associazione Peacelink ad approfondire i legami di solidarietà e condivisione avviati tra città, collocate in diversi continenti, esposte alle conseguenze della filiera produttiva dell’acciaio. Sono stati i missionari comboniani a promuovere nel maggio 2014, in Brasile, un seminario internazionale per riprendere il meglio della mobilitazione a favore del bene comune ambientale.  

Quali altre realtà internazionali, oltre la rappresentanza tarantina, erano presenti all’incontro brasiliano?

«Il filo conduttore di tutto il seminario è stato il focus sulla società brasiliana Vale, la seconda industria mineraria più grande del mondo che, nel 2012 ha vinto il premio come “peggiore multinazionale del pianeta”. Il seminario dal titolo “Carajàs 30 anos: resistenze e mobilitazioni di fronte ai progetti di sviluppo nell'Amazzonia orientale” aveva lo scopo di esaminare, dal punto di vista delle comunità, dei movimenti sociali e del mondo universitario e della ricerca, 30 anni di storia dell’azienda transnazionale Vale, e gli effetti della sua presenza nei 38 paesi nei quali opera».

Per restare nell’America Latina?

«Un caso eclatante è quello della Colombia, rappresentata dall'avvocato Rafael Figueroache ha esposto il caso delle comunità di El Hatillo e Plan Bonito che subiscono, da anni, gli impatti devastanti dello sfruttamento minerario della zona, ad opera di alcune industrie come la Glencore o la Vale Coal, filiale della brasiliana Vale. Da quando sono stati scoperti giacimenti di carbone termico nella zona di Cesar, la vita delle popolazioni locali è drasticamente cambiata, in peggio! Il carbone ha spazzato via tutte le attività agricole e zootecniche che si realizzavano nella regione ed ha avuto impatti disastrosi anche sull'ambiente. Deviazioni di fiumi che garantivano il sostentamento delle comunità, villaggi divisi in due dalle strade che portano alle miniere, oltre a un pesante inquinamento ambientale che ha causato l'aumento drammatico di patologie respiratorie e della pelle. A causa di queste problematiche si è deciso per il reinsediamento di queste comunità a carico delle imprese Glencore, Vale, CNR e Drummond ma, ad oggi è ancora tutto fermo».

Un caso a parte riguarda il Perù, in che senso?

«Si tratta delle comunità peruviane di Cajamarca, rappresentate in Brasile da Milton Sanchez Cubas, che lottano per ottenere la sospensione definitiva del progetto minerario Conga, che riguarda l'apertura di una miniera d'oro a cielo aperto che rovinerebbe l'ecosistemadi lagune alto-andine per un totale di 3000 ettari di specchi d'acqua distrutti. Acqua per la vita, per l'agricoltura e l'allevamento, principali attività del territorio. Il progetto Conga comprende anche il deposito di rifiuti tossici, con una media di 80.000 tonnellate al giorno, per 17 anni. Purtroppo in Perù si continua a criminalizzare, minacciare e aggredire i difensori dei diritti ambientali e delle comunità indigene colpite dai progetti di sfruttamento delle risorse naturali, in particolare minerarie e idrocarburi».

In Amazzonia è intervenuto anche un rappresentante dall’Africa….

«È stato l'intervento più emozionante. La presidente della Lega dei diritti umani del Mozambico, Maria Alice Mabota, ha parlato delle condizioni di vita dei villaggi di reinsediamento nel suo paese. La società Vale, per continuare le sue attività estrattive ha spostato forzatamente alcune centinaia di persone, promettendo loro nuove case e posti di lavoro. Quello che hanno ottenuto, invece, sono state poche terre coltivabili e servizi inesistenti. Oltre all'intromissione della Vale nella gestione delle stesse case, all'interno delle quali era consentita la presenza solo del lavoratore, di sua moglie e dei figli. Nessuna possibilità di condividere il tetto con genitori o parenti vari, come normalmente avveniva nelle comunità del Mozambico. Ci sono state numerose proteste, a volte violente, per bloccare la ferrovia che collega le miniere con i porti dell'Oceano Indiano. Secondo Maria Alice Mabota quella che si sta verificando in Mozambico, ad opera della Vale, è una vera e propria violazione dei diritti umani».

Quali sono i problemi emersi durante il seminario e quali azioni si possono portare avanti per difendere la popolazione dal pesante inquinamento industriale?

«Le attività della Vale, a partire dall'estrazione del minerale di ferro nelle miniere del Carajàs, fino all'acquisto del prodotto finito dalle industrie siderurgiche di Piquià de Baixo, passando per l'esportazione delle materie prime in tutto il mondo, ha causato e continua a causare distruzione ambientale, contaminazione del territorio oltre a numerosi problemi alle popolazioni locali. Deforestazione e distruzione dell'ecosistema grazie alla monocoltivazione intensiva di eucalipto geneticamente modificato; lavoro nero e infantile nelle carbonaie abusive per la realizzazione del carbone; sfruttamento sessuale; interi villaggi letteralmente tagliati in due dal passaggio del treno che trasporta il minerale di ferro, che con le sue vibrazioni e rumori assordanti produce crepe nei muri delle case, nelle pareti dei pozzi e spaventa fino a far fuggire gli animali; fino al pesante inquinamento ambientale del quartiere di Piquià de Baixo. Le associazioni, i comitati e i semplici cittadini chiedono che la Vale e le altre imprese paghino per i danni causati all'ambiente e alle popolazioni. Che venga applicato il principio “Poluidor, pagador” (chi inquina, paga) e che le persone maggiormente colpite dalle attività della Vale vengano indennizzate. Viene chiesto poi di lottare a livello internazionale, attraverso strumenti giuridici, per ottenere l'istituzione di standard unificati per il controllo delle emissioni e di creare una rete internazionale di resistenza unendo tutte le popolazioni vittime della Vale, direttamente o indirettamente».

Ma il nostro tipo di società industrializzata non avrà sempre bisogno di acciaio? Non si può produrre senza effetti lesivi sull’ambiente?

«Ci troviamo, effettivamente, in un periodo di crisi per la siderurgia mondiale, perché la società non chiede tutto l'acciaio che viene prodotto. L’Unione Europea registra un eccesso di 40 milioni di tonnellate: in percentuale viene utilizzato soltanto il 69 per cento dell’acciaio prodotto. L'attuale crisi economica ha determinato un netto rallentamento dell'attività produttiva siderurgica e, di conseguenza, della domanda di acciaio. Molti impianti hanno cessato l'attività o ridotto la produzione. Il problema principale deriva dal fatto che i paesi emergenti continuano a produrre ogni anno di più, mentre la domanda di acciaio rallenta. È la Cinaa dominare oggi la produzione mondiale di acciaio. La Commissione Europea stima che dei circa 542 milioni di tonnellate di acciaio annuo "in più" di capacità produttiva mondiale, ben 200 milioni di "overcapacity" siano proprio in Cina».  

Quindi, che fare davanti a quest’eccesso di produzione?

«Pensiamo che continuare la produzione siderurgica sia un modo per garantire l'indipendenza economica nazionale. Principalmente perché l'Italia dipende, per il minerale di ferro indispensabile alla propria produzione, da paesi quali Brasile e Australia, dove è presente in grandi quantità. In secondo luogo perché questa importantissima risorsa naturale, secondo alcuni studiosi, è destinata ad esaurirsi nel giro di 80 anni, intorno al 2087. Le politiche ambientali e l'efficienza nell'impiego delle risorse saranno un altro fattore determinante dei cambiamenti tecnologici.Negli Usa, ad esempio, c'è un grande impiego di acciaio riciclato, che significa ridurre l'input energetico di circa il 75 per cento e risparmiare circa il 90 per cento dell'input di materie prime. La produzione da rottami determina una netta riduzione dell'inquinamento atmosferico, del consumo di acqua e dell'inquinamento delle stesse e dei rifiuti da attività estrattiva. Una tonnellata di acciaio prodotta da rottami determina un risparmio di 231 tonnellate di anidride carbonica rispetto all'uso di minerale vergine. È in questa direzione che dovrebbero muoversi anche i Paesi europei».

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