Ritorno alla città pubblica per uscire dal caos

I disordini di Tor Sapienza a Roma sono solo la punta di un malessere sociale pronto ad esplodere in troppi quartieri marginali della Capitale. Come se ne esce? Intervista all’urbanista Paolo Berdini
tor sapienza

Prima o poi doveva accadere. Le periferie di Roma racchiudono tutte le contraddizioni espulse dalla mirabile città eterna racchiusa nelle zone del centro sempre più spopolate di residenti. Lo ha detto con estrema chiarezza il vicario di Roma, cardinal Vallini, nella lettera indirizzata a tutti i parroci della città.

«Il clima di esasperazione degli abitanti non nasce oggi e si spiega non tanto per la presenza del centro immigrati e dei rom, ma per il crescere tra la gente della sfiducia nelle istituzioni giudicate latitanti. Vi dilaga lo spaccio della droga, la delinquenza, la prostituzione, le strade sono dissestate, pericolose e non illuminate, i servizi pubblici scarsi, e soprattutto non esistono presìdi che garantiscano la legalità e la sicurezza. Le persone hanno paura di uscire di casa; sono semplicemente esasperate. I problemi sociali di Tor Sapienza sono comuni ad altri quartieri. I cittadini hanno evidenziato un malessere sociale e chiedono che i diritti di cittadinanza vengano rispettati. Come non comprenderli!»

Approfondiamo la questione con l’urbanista Paolo Berdini.

Come dice Vallini, ciò che sta accadendo era prevedibile da tempo e voi urbanisti responsabili lo indicate da sempre come è avvenuto nel forum organizzato da Città Nuova il 5 del 2013. Ma cosa si può fare oggi che ogni quartiere periferico è pronto ad esplodere?

«Per correre ai ripari e scongiurare un conflitto sociale che può avere gravissime conseguenze sulla vita delle popolazioni coinvolte e dell’intera città bisogna compiere un profondo salto culturale e ritornare ad una concezione unitaria della città. Sono anni che le periferie sono scomparse dall’agenda politica e si parla soltanto di “grandi progetti” e di valorizzare i luoghi che sono già caratterizzati da qualità. La periferia è stata abbandonata in un cono d’ombra e non viene programmata nessuna opera pubblica o servizio sociale.

«È grave continuare a tagliare la spesa destinata ai servizi pubblici. Spesso quelle strutture sono l’unico strumento che molte famiglie hanno per vincere la solitudine e per alleviare l’esistenza di situazioni di grave disagio economico e sociale. La città assomiglia sempre di più ad un deserto in cui non si alimentano i legami sociali ma si mantengono inalterate le differenze. La rete dei servizi e dei luoghi di socialità servivano per diminuire, per quanto possibile, quelle differenze, ma sono più di venti anni che viene applicata una ricetta esattamente opposta. Chi ci governa ha dimenticato che le città sono il luogo in cui un’intera comunità si riconosce e che deve continuamente ampliare e migliorare i momenti di socialità.

E’ ora di tornare all’originale concezione ideale dell’urbanistica smarrita in troppi anni di attenzione esclusiva all’economia e alla scomparsa della città pubblica. In un momento di forte cambiamento economico e sociale con forti afflussi di immigrati, la città resta unita soltanto se si costruisce una prospettiva di progresso e integrazione sociale».

Quali ostacoli bisogna rimuovere preventivamente per cercare di dare una soluzione credibile ad uno stato di cose che sembra senza speranza?

«Oltre all’ostacolo culturale di cui parlavamo, è ora di impiegare risorse pubbliche per migliorare le città. Si deve ricominciare ad investire nelle periferie per renderle più umane e vivibili.  In ogni epoca storica i soldi della collettività sono sempre stati spesi per raggiungere obiettivi comunitari. A causa del grave indebitamento di Roma (22 miliardi di euro ai quali si sono aggiunti negli ultimi due anni altri 800 milioni) è stato ulteriormente tagliato il welfare urbano.

«Dal settembre 2014 sono state abolite ad esempio 54 linee di trasporto pubblico proprio per ripianare un debito contratto con una cattiva gestione del territorio. Gli abitanti delle periferie, e cioè la parte più debole della società romana paga dunque un prezzo elevato all’incapacità della politica a guardare all’intera comunità urbana e non solo alla parte economicamente dominante. Mi rendo conto che è una sfida complessa perché dobbiamo continuare a investire nei servizi e nel decoro urbano in una fase di crisi delle risorse pubbliche. Ma è l’unico modo per scongiurare ulteriori fratture sociali». 

Quali interventi urbanistici sono necessari?

«Non è tollerabile che le persone che abitano in periferia impieghino quotidianamente due o tre ore della propria vita per raggiungere il luogo di lavoro; le scuole o i servizi sociali e sanitari. Ore sottratte alla vita familiare o a quella di relazione. Una città che guarda lontano e al benessere di tutti deve iniziare a programmare la costruzione di una moderna rete di trasporto pubblico. Tutte le città d’Europa, anche in tempo di crisi come l’attuale, continuano a realizzare tramvie e altre linee a basso inquinamento e in corsie protette».

E da noi? 

«È noto che Roma ha in questo settore un ritardo spaventoso perché si è costruito troppo e male negli ultimi venti anni. Un motivo di più per moltiplicare gli sforzi per ottenere finanziamenti e renderli concreti. La disperazione e l’abbandono delle periferie si combattono accorciando le distanze fisiche e temporali che esistono tra le varie parti della città. Bisogna unificare la città, non tagliare i servizi essenziali».

Il caso “rom” è emblematico dell’incapacità di risolvere un problema che statisticamente è insignificante con riferimento ad altre metropoli europee. Esistono delle tracce percorribili per una soluzione abitativa di queste persone senza scorciatoie buoniste ma tenendo conto della loro prevalente mancanza volontà di integrazione?

«Negli anni ’80 quando esisteva ancora una concezione urbana pubblica che tentava di tenere unità la città furono riservati alcuni alloggi pubblici nel quartiere di Spinaceto da destinare a famiglie rom e furono costruiti piccoli campi di accoglienza inseriti nei tessuti urbani come quello di vicolo Savini a ponte Marconi. I bambini potevano frequentare le scuole dell’obbligo e si integravano e conseguentemente l’intera popolazione accettava i rom».

Perché, allora, oggi siamo in queste condizioni?  

«Solo a partire dagli anni’90 si iniziò una politica regressiva. Il primo esempio nefasto fu la costruzione del grande campo di Ciampino su cui tanto si batté (inutilmente!) don Luigi Di Liegro. Da allora è stato un crescendo. I due campi costruiti sulla via Pontina (Tor de’ Cenci e Castel Romano) sono chiusi da muri di cinta e sono isolati nella campagna. Questa follia di concentrare in poco spazio gruppi appartenenti a culture differenti fa emergere conflitti e contrasti tra le diverse famiglie che provocano anche fughe e realizzazione di campi abusivi caratterizzati dalla mancanza dei servizi essenziali come l’acqua e inevitabilmente destinati al degrado. È questo degrado che provoca le pericolose forme di rivolta estrema che abbiamo visto nelle scorse settimane».

Come intervenire prima che sia troppo tardi?

«Si deve rispondere con le attenzioni ai luoghi, al decoro e alla vivibilità. Insomma, se invece di pochi grandi campi isolati nella campagna si fosse perseguita una politica di accoglienza fatta di strutture di modeste dimensioni in modo da permettere almeno la integrazione scolastica dei minori, non ci sarebbero stati i casi di rifiuto razzistico. Una ragione in più per iniziare oggi una nuova fase di assistenza alloggiativa che sia caratterizzata da una piccola dimensione e dall’integrazione invece della segregazione seguita fin qui».

 

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