Ripartire dal Sud

Come rilanciare il Meridione? Per Giuseppe Notarstefano, docente universitario e direttore dell'Ufficio diocesano per i problemi sociali di Palermo, mettendo in rete realtà positive come i movimenti per la legalità, la Chiesa, gli amministratori illuminati, gli imprenditori onesti
Operai a lavoro

Sembra ormai svanito il progetto della molisana drMotor per l’ex stabilimento Fiat Termini Imerese. Resta, come in tanti altri casi, l’ipotesi, remota, di un acquirente cinese. Eppure nell’ultimo tavolo del 16 luglio tra governo, enti locali e parti sociali si è parlato prevalentemente del problema “esodati”, mentre la regione Sicilia, secondo Ivan Lo Bello, vicepresidente nazionale di Confindustria, è vicina al fallimento. Come la Grecia.

Quale prospettiva di riscatto è possibile per il Sud Italia? Lo chiediamo a Giuseppe Notarstefano, docente universitario e direttore dell'Ufficio diocesano per i problemi sociali e il lavoro dell'arcidiocesi di Palermo. Coordinatore didattico dell’attivissimo Istituto “Pedro Arrupe” di Palermo e del Centro studi della presidenza nazionale dell’Azione cattolica italiana.
 
Quali soluzioni realistiche si possono immaginare per il futuro dei lavoratori di Termini Imerese?
«La vicenda di drMotor ripropone con drammaticità la difficoltà strutturale della regione di realizzare una politica industriale degna di questo nome. Gli obiettivi perseguiti sono – per un certo verso giustamente – quelli del mantenimento dei livelli occupazionali, non andando mai alla radice dei fattori che innescano la creazione di valore e la produzione: ossia energia, materie prime e innovazione. L’Apq (accordo di programma quadro) è stata accompagnato da un insieme di maldestre trovate e di uscite furbesche da parte di una politica che è stata assente in termini di visione e di iniziativa (non basta infatti sedersi ai tavoli e rilasciare improvvisate interviste ai cronisti). L’unica presenza politica “consistente” e rilevante è stata quella dell’amministrazione locale che ha cercato di intuire nuovi percorsi e vie di uscita davvero sostenibili a partire anche dagli strumenti di programmazione di cui si era in precedenza dotata (mi riferisco al Piano strategico di Termini Imerese che già aveva “scontato” l’uscita di Fiat e il rilancio di prospettive alternative)».
 
Con quali prospettive?
«Green Economy, ricerca scientifica finalizzata allo spin off accademico e logistica integrata sono un futuro possibile per Termini Imerese. Occorrerebbe concentrare gli investimenti in tale direzione. Ma occorre anche gestire l’uscita soft e/o la riqualificazione dei cassintegrati Fiat. Le risorse sono poche è occorre indirizzarle verso le categorie davvero più fragili: distinguere lavoratori capaci di reinserirsi nel mercato (magari attraverso politiche attive del lavoro) e lavoratori esclusi da tale prospettiva; distinguere sostegni al reddito e politiche sociali familiari integrate da interventi di politica industriale. Una scelta difficile di cui però solo la comunità locale in quanto tale può essere protagonista, decidendo un piano di investimenti che dovranno essere un mix intelligente di flussi interni ed esterni all’area, privati e pubblici (ma lasciando al pubblico il compito di preoccuparsi soprattutto del livello infrastrutturale e scientifico-tecnologico)».
 
Qual  è stato in questi anni il rapporto tra la Fiat e il territorio? Quale indotto si è creato?
«La realtà industriale termitana è stata importante in termini di dimensione e di impatto occupazione diretto. Modesto invece è stato l’indotto strettamente industriale e, comune, strettamente legato a forme di conto-terzismo che hanno goduto delle scelte di esternalizzazione compiute da Fiat verso piccoli imprenditori locali. Più rilevante è stato l’indotto economico latu sensu e l’impatto sulla condizione e gli stili di vita delle persone residenti nell’area territoriale termitana».
 
Eppure l’idea originale era diversa…
«Il sogno industriale, vagheggiato e promosso in modo convinto negli anni Sessanta dalla Confindustria siciliana, ha realizzato e vinto molte piccole battaglie (modernizzazione, riduzione del controllo del territorio della mafia di matrice rurale e tardo feudale, elevazione dei livelli occupazionali e professionalizzazione industriale della popolazione, riduzione della disoccupazione, contributo alla crescita del valore aggiunto regionale e miglioramento delle condizioni di vita della popolazione), ma ha perso sostanzialmente la guerra, cioè la diffusione di una vera cultura imprenditoriale e industriale capace di considerare la Fiat come un canale per intercettare i percorsi della crescita e dell’innovazione, attivando anche percorsi endogeni di industrializzazione e di creazione di nuove imprese».
 
Nel vostro lavoro di analisi e condivisione avete invitato un professore basco che ha esposto il caso positivo di riconversione economica e produttiva avvenuta a Bilbao. Cosa manca in Italia, in Sicilia, per riprodurre una simile esperienza ?
«Abbiamo pensato che una testimonianza come quella di Bilbao potesse scuotere e incoraggiare a coniugare nel futuro gli sforzi dei cittadini e dell’amministrazione di Termini, invero troppo “schiacciati” sulla gestione dell’ingombrante e faticosa contingenza. Provando a semplificare e sintetizzare potremmo dire che la best practice di Bilbao può insegnare a Termini tre cose: la prima è relativa alla mobilitazione di tutte le risorse umane, culturali e produttive verso obiettivi comuni, la seconda è la scommessa su un modello alternativo di sviluppo basato sul trinomio ambiente-cultura-servizi evoluti per attrarre risorse esterne attraverso i flussi di investimenti diretti esteri e i flussi turistici, la terza è relativa  a un uso intelligente ed efficace dei fondi comunitari e delle risorse pubbliche messe a disposizione delle aree marginali e insulari».
 
Come Centro Arrupe avete messo insieme, nel 2010, Pomigliano e Termini come storie del Sud che si incontrano, volendo “uscirne fuori” assieme. Quali elementi sono emersi per la nuova questione meridionale?
«I nuovi termini delle questione meridionale sono legati allo sguardo mediterraneo e alla sfida dei nuovi modelli di sviluppo. Carlo Trigilia, sociologo fiorentino di origini siciliane e osservatore attento delle politiche di sviluppo locale, ha individuato nei fattori istituzionali e nel deficit delle classi dirigenti meridionali le ragioni dell’approfondimento dei gap che in questo ultimo ventennio si sono sostanzialmente accresciuti».
 
E gli elementi di speranza concreta? 
«C’è una stagione di protagonismo sociale ed economico che nasce da diversi piccoli “incubatori”: la cultura antimafia e il movimento per la legalità soprattutto dei movimenti giovanili, l’impegno sociale della Chiesa meridionale, che si esprime nei gesti concreti come quelli del Progetto Policoro, le scelte coraggiose di alcuni imprenditori, la crescita di sensibilità etica di molti operatori economici capaci di esprimere una “reale” cultura di mercato, le esperienze di buona amministrazione di alcuni comuni meridionali. Occorre fare sistema e collegare attraverso reti “istituzionali” tali piccole realtà, perché, insieme, promuovano una crescita di quel capitale sociale che è il fattore più necessario oggi alla crescita e allo sviluppo del Sud.
A ciò aggiungo la necessità di riattivare un percorso che inneschi un “rientro” delle intelligenze e delle sensibilità che in questi anni hanno lasciato il Mezzogiorno: un “vaste programme” di investimenti finalizzato al capitale umano e intellettuale, orientato all’innovazione e allo sviluppo tecnologico, radicato nella cultura della legalità e dell’etica pubblica».

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