Rigoletto? E’ tutti noi

Milano, Teatro alla Scala.

Scelta felice, quella di James Conlon di rallentare il Preludio: l’eco della “Maledizione” risalta più lugubre negli ottoni. Rivela Verdi orchestratore preciso e giusto. Nell’incontro tra i due derelitti, Sparafucile (un ottimo Marco Spotti) e Rigoletto (un intenso Alberto Gazale), gli archi gravi sono sospettosi, bui come loro. Rigoletto è schizofrenico: padre ansioso, buffone perfido. Ride delle sventure altrui, protetto dal potere. Ma il dolore lo colpisce nella figlia, sedotta dal suo Duca. Il gobbo giura vendetta, ma è un Dio implacabile a prendersi gioco di lui. Per Verdi la divinità è inesorabile, l’uomo vi soccombe. Eppure, Rigoletto è grande proprio perché cade e piange. Tutta l’opera vibra sotto una parola: pianto. Nelle lacrime Rigoletto, e noi con lui e come lui “attori” a due facce nella vita ci redimiamo. Torniamo uomini.

Verdi inventa una musica così vera che non stanca mai. La regia di Gilbert Deflo convive con le scene di Frigerio e i costumi della Squarciapino: essenzialità. I cantanti possono così cantare, senza eccessi scenici. Gilda è Elena Mosuc, voce leggera, il Duca un Gianluca Terranova “sparato”. La direzione di Colon estrae sonorità fosche e piangenti (i violini, l’amato clarinetto). Applausi e commozione.

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